Elezioni cruciali per l’Iran

Scenari mediorientali – I tre turni elettorali in Libano, Iraq e Turchia sono fondamentali per il consolidamento del Paese degli ayatollah a livello regionale
/ 21.05.2018
di Marcella Emiliani

Con l’eccezione di Israele, in Medio Oriente è molto difficile parlare di democrazia, eppure il futuro dell’intera regione si va definendo sull’onda di tre turni elettorali che – belli o brutti, corretti o drogati – saranno cruciali per le sorti di tre paesi-chiave: il Libano alle urne il 6 maggio, l’Iraq il 12 maggio e la Turchia il 24 giugno.

Dimenticate per un momento i diversi giochi geostrategici che devastano lo scenario mediorientale e concentratevi solo sul vero big match, quello che oppone sunniti e sciiti, ovvero le due potenze regionali: l’Arabia Saudita e l’Iran. Ebbene, i tre turni elettorali di cui parlavamo sono cruciali per il consolidamento dell’Iran a livello regionale in un momento in cui Teheran deve affrontare le conseguenze dell’uscita degli Usa dall’Accordo nucleare del 2015 e la probabile nuova ondata di sanzioni voluta da Trump per tarpargli le ali.

Se, dopo le elezioni libanesi del 6 maggio, Teheran ha tirato un sospiro di sollievo perché il blocco sciita Hezbollah-Amal è uscito vincente dalle urne, i risultati delle legislative in Iraq del 12 maggio hanno seriamente preoccupato il regime degli ayatollah. Delle cinque coalizioni sciite presenti sulla scheda elettorale, infatti, ha prevalso quella più ostile a Teheran: «In marcia per le riforme», volgarmente i Marciatori (al-Sairoon), guidata da Muqtada al-Sadr, che ha guadagnato 55 seggi sui 329 del parlamento federale. Una vittoria risicata che costringe ora l’ex enfant prodige della politica irachena a stringere solide alleanze se vuole formare un governo con qualche chance di durare nel tempo, di fronte alle immani sfide cui si troverà: innanzitutto quella della ricostruzione del Paese dopo cinque anni di guerra all’Isis e continui conflitti settari che peraltro non sono ancora terminati.

L’anno scorso, dopo aver celebrato in gran pompa la sconfitta del Califfato, il primo ministro uscente Haider al-Abadi, sciita, si era illuso di raccogliere i frutti del suo impegno nella lotta al terrorismo islamico, ma ha fatto male i suoi calcoli. Alla Conferenza per la ricostruzione dell’Iraq – che si è tenuta dal 12 al 14 febbraio scorso in Kuwait – i 76 paesi presenti si sono impegnati a versare solo 30 degli 88 miliardi di dollari necessari a rimettere in piedi il paese, un’impresa che va realizzata in fretta se si vuole evitare che i jihadisti dell’Isis riprendano a sfruttare lo scontento della popolazione. La seconda scommessa di al-Abadi, forte dell’appoggio internazionale, era quella di vincere le elezioni del 12 maggio e ci credeva al punto di aver battezzato la propria coalizione «Vittoria» (Nasr). Vittoria invece è arrivata solo seconda con 51 seggi, distanziata di un solo seggio dal vero perno della presenza iraniana in Iraq: Hadi al-Amiri, che con la sua coalizione «Conquista» (Fatah) è arrivato terzo (50 seggi).

Gli altri partiti, sciiti, sunniti o altro, hanno ottenuto ancora meno. D’altronde nella scheda-lenzuolo che gli elettori si sono trovati di fronte ce ne erano ben 87 a riprova dell’estrema frammentazione e confusione della scena politica. Non meraviglia nemmeno la scarsa affluenza alle urne che si è attestata al solo 44,52% dei 22 milioni degli aventi diritto al voto. Una affluenza davvero scarsa per le prime elezioni post-Califfato e la peggiore dalla caduta di Saddam Hussein. Gli iracheni hanno così voluto punire non solo la corruzione dilagante, ma soprattutto le lobby che dalla fine della dittatura monopolizzano il potere a Baghdad: le «solite vecchie facce» come le chiamano loro.

Questo aiuta a capire anche la vittoria di Muqtada al-Sadr e dei suoi Marciatori. Muqtada, infatti, gode della fama di incorruttibile che in parte gli deriva dal carisma storico della sua famiglia di «martiri» (il cugino di suo padre, il grande ayatollah Mohammed Baqir, venne giustiziato da Saddam Hussein nel 1980, che nel 1999 fece uccidere anche suo padre il grande ayatollah Mohammed Sadeq al-Sadr e due suoi fratelli) e in parte dall’essersi sempre schierato dalla parte dei più deboli. E per ribadire la sua ferma intenzione di essere al fianco dei «diseredati», per le elezioni si è addirittura alleato col Partito comunista iracheno.

I suoi esordi in politica, del resto, – dopo l’Operazione Iraqi Freedom del 2003 con cui Bush jr. spazzò via la dittatura di Saddam – li ha fatti nella peggior periferia di Baghdad, Sadr City, dove ha reclutato i miliziani del suo Esercito del Mahdi con cui sfidava tanto gli Stati Uniti quanto l’Iran. Detto in altre parole Muqtada al-Sadr è sempre stato un fiero nazionalista arabo e ha lottato per l’indipendenza del suo Paese da tutte le grandi e piccole potenze internazionali e regionali. La sua campagna elettorale è stata improntata a questa «indipendenza» con lo slogan trumpeggiante «l’Iraq innanzitutto», alla lotta alla corruzione, alla carità verso i più deboli e – cosa molto importante – al dialogo coi sunniti. Se gli iracheni gli hanno creduto, gli iraniani si sono seriamente preoccupati. Considerano Muqtada imprevedibile e anche pericoloso soprattutto dopo che nel luglio scorso se ne è andato a far visita al nemico no. 1 dell’Iran: Mohammed bin Salman, erede al trono dell’Arabia Saudita. I due – a quanto si dice – hanno gettato le basi per una collaborazione che se non oggi, domani si spera arrivi a debellare il settarismo religioso nel Golfo.

Inutile dire che una mossa del genere ad Ali Khamenei, la Guida della rivoluzione iraniana, non è piaciuta per niente perché disturba i disegni dell’Iran a livello non solo iracheno ma regionale e internazionale. Tanto più quanto l’Iran non ha più un rial da elargire per la ricostruzione dell’Iraq, mentre Riad e gli Emirati del Golfo fremono per acquisire un maggior peso a Baghdad a suon di dollari.

Teheran perciò sta lavorando per impedire non che Muqtada diventi premier (perché non si è nemmeno candidato alle elezioni) ma formi un governo di coalizione, se non ostile, comunque non acquiescente ai propri diktat. Per questo, dal 15 maggio scorso il generale Ghassem Suleimani, capo della Brigata al-Quds dei Pasdaran incaricata delle missioni all’estero, sta incontrando tutte le forze politiche sciite in Iraq proibendo loro di allearsi con i Marciatori e ovviamente coi partiti sunniti più ostili al regime degli ayatollah.

Tra i partiti con cui non allearsi Suleimani ha indicato anche il Partito democratico del Kurdistan (Pdk, 24 seggi) di Massud Barzani. Scottato dal mancato appoggio degli Stati Uniti al referendum per l’indipendenza del Kurdistan del settembre scorso, umiliato dall’annullamento del risultato positivo del referendum stesso da parte del parlamento iracheno, nonché sconfitto e punito dal governo di al-Abadi per aver «annesso» al Kurdistan l’area petrolifera di Kirkuk strappata all’Isis, Barzani potrebbe essere tentato di rientrare in gioco coalizzandosi proprio con gli sciiti in funzione anti-Muqtada, ma a quanto pare l’Iran non gradisce.

Non gradisce che si crei in Iraq un Kurdistan più forte e indipendente di quanto già non lo sia per Costituzione: un esempio che i curdi iraniani potrebbero essere tentati di imitare. Non gradisce soprattutto che si intralcino, oltre ai suoi, anche i disegni di quel suo prezioso alleato che è la Turchia di Erdoğan. In un momento come questo, in cui Ankara si accinge a colpire – dopo quelli siriani – anche i curdi iracheni con un’altra invasione e ruggisce contro gli Stati Uniti per il loro appoggio ad Israele. Israele che non più tardi del 10 maggio scorso ha bombardato l’ennesima base militare iraniana in Siria e dal 30 aprile – come accusa Erdoğan – «massacra i palestinesi a Gaza».

Per questo il presidente turco sta rompendo le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico che definisce «Stato terrorista», poiché compie un «genocidio» nei confronti dei palestinesi, mentre gli Stati Uniti sono «parte del problema» perché hanno spostato la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme non capendo che «il mondo islamico non permetterà mai che Gerusalemme sia perduta». Inutile ripetere che l’Iran conta tra i suoi protetti anche Hamas, che sta orchestrando la Marcia del ritorno nella Striscia. Nella virulenza di Erdoğan contro Israele si legge però la stessa voglia dell’Iran di strumentalizzare la causa palestinese ai propri fini. Per tutta la Guerra fredda questo gioco perverso è stato fatto dagli Stati arabi: oggi è la volta dei persiani e dei turchi. Ma tant’è. Prima o poi su questi disegni egemonici regionali arriveranno a scontrarsi anche Iran e Turchia. Per ora l’Iran aspetta con trepidazione di conoscere i risultati delle elezioni anticipate in Turchia del 24 giugno prossimo.

In ballo, infatti, se dovesse vincere il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdoğan, non c’è solo la morte della democrazia turca con il totale accentramento del potere nelle mani del presidente. Erdoğan vuol vincere per avere mano libera in politica interna ed estera, per cancellare definitivamente la laicità dello Stato turco (assai invisa a Teheran, a prescindere), seppellire il kemalismo e vendicarsi fino in fondo delle forze armate colpevoli non solo del tentato golpe del 15 luglio 2016 ma anche di costituire ancora il legame più vincolante tra la Turchia e gli Stati Uniti-Nato, che non gradiscono l’involuzione dittatoriale del regime turco e la sua nuova politica imperial-ottomana. Gli stessi Stati Uniti che per l’Iran sono tornati a rappresentare il Grande Satana.