Tutti parlano della Brexit, ora che è finalmente partita. Pochi si preoccupano di una delle sue possibili, non volute quanto strategiche conseguenze: la dissoluzione del Regno Unito. Le cui linee di faglia erano già inscritte nel referendum sulla Brexit del 2016. Quando infatti l’Inghilterra (salvo Londra, al 59,93% per il remain), insieme al Galles (52,53%) votò per lasciare l’Unione Europea, mentre Scozia (62%) e la britannica Irlanda del Nord (55,78%) si espressero contro.
Oggi il governo scozzese, per bocca di Nicola Sturgeon, first minister e leader del Partito nazionale scozzese, seccamente indipendentista, lavora a un secondo referendum di autodeterminazione, dopo quello del 2014, perso per poco: 55% contro 45% per restare nel Regno Unito. In particolare, già nel 2017 Sturgeon aveva annunciato davanti al parlamento scozzese di voler negoziare con Londra un Section 30 Order, necessario a legalizzare un nuovo referendum per l’indipendenza. Il 29 gennaio 2020 il parlamento scozzese ha approvato una mozione del suo governo per l’organizzazione del secondo plebiscito. Il governo britannico ha formalmente respinto questa proposta il giorno successivo. Boris Johnson ha ricordato a Sturgeon che i leader indipendentisti scozzesi avevano promesso che il referendum del 2014 sarebbe stato «l’unico per una generazione». Edimburgo ha poi sospeso i preparativi causa Covid-19, salvo poi annunciare una nuova mozione per il secondo referendum.
La partita fra scozzesi e altri britannici (soprattutto inglesi) resta aperta. I più recenti sondaggi indicano una netta prevalenza del sì all’indipendenza: 58%. Questo contribuisce a rendere estremamente improbabile il sì di Londra alla ripetizione del voto del 2014. In teoria, Edimburgo potrebbe allestire uno scrutinio non vincolante, che avrebbe comunque forte impatto in caso di vittoria indipendentista (e anche, all’opposto, se vincessero gli unionisti). Ma questa opzione pare superata dal clima di competizione fra governo britannico e governo scozzese. Un referendum consultivo, alla catalana, rischierebbe di provocare un intervento di forza da parte del governo britannico, con conseguenze difficilmente immaginabili.
Il distacco della Scozia aprirebbe ferite a ripetizione nel corpo britannico. Sotto il profilo geopolitico, ad esempio, la decisiva proiezione artica del Regno Unito (e della Nato) ne sarebbe gravemente colpita. Fra l’altro, seri problemi riguarderebbero la stessa composizione delle Forze armate e la dislocazione delle basi militari britanniche, di strategica importanza anche per gli Stati Uniti.
È ovvio che la eventuale, tutt’altro che improbabile secessione della Scozia infliggerebbe un colpo micidiale al Regno Unito. Anzitutto, fomenterebbe i nazionalismi e gli autonomismi interni. Gli irlandesi del Nord cominciano a prendere in seria considerazione, anche sul versante protestante – pro britannico, la riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. L’avvento alla Casa Bianca di Joe Biden, di origine irlandese, alimenta questa prospettiva. La prima telefonata fra Biden e Johnson, per quel che se ne sa, non è filata benissimo proprio sulla questione irlandese. Ma anche la partita gallese potrebbe inaspettatamente riaprirsi. Negli ultimi anni, il locale nazionalismo, a lungo poco più che folkloristico, ha ripreso quota. È insomma tutta la «frangia celtica» a fibrillare, per la massima inquietudine di Londra.
Né si può escludere la crescita del nazionalismo inglese. Le bandiere bianco-rosse, marchio anglo, sono sempre più frequenti in Inghilterra. In questo interminabile gioco di scatole cinesi, la questione delle questioni è Londra. Megalopoli globale, di robusta impronta multiculturale, molto più connessa al resto del pianeta che all’Inghilterra profonda. Piattaforma finanziaria britannica nel mondo, massimo fattore di potenza in questa fase storica non eccessivamente brillante per l’ex impero.
Mentre Johnson parla di Global Britain e immagina per il Regno Unito un rinnovato ruolo di brillante secondo degli Stati Uniti, con un’Anglosfera formata dalle principali ex colonie di Sua Maestà britannica, Great Britain si sta sfarinando. Se il processo dovesse compiersi, le conseguenze geopolitiche per il pianeta sarebbero infinitamente superiori alla Brexit.