Sorprendente la natura ibrida dell’alleanza inedita stretta nel narcotraffico latinoamericano che tiene in fiamme la frontiera tra Colombia e Ecuador. Si tratta di un gruppo dissidente delle Farc, una frangia che non ha aderito al patto tra ormai ex guerriglia colombiana e il governo di Bogotà, e di un grappolo di narcotrafficanti messicani. Avrebbero stretto un accordo di collaborazione nel territorio ad alta densità criminale lungo il confine tra l’Ecuador e la Colombia. Lo sostiene l’intelligence colombiana. Si finanziano secondo il vecchio stile dei sequestri ad alto impatto mediatico a scopo estorsivo. L’ultimo ha avuto un esito tragico: tre sequestrati in territorio ecuadoreño, due giornalisti e il loro autista del giornale El Comercio, sono stati uccisi dai rapitori.
Questa settimana c’è stato un nuovo sequestro, è stata rapita una coppia di colombiani, gli autori dell’azione sarebbero membri del Frente Oliver Sinisterra, il cui leader è Walter Artízala, detto il Guacho. Hanno rivendicato il sequestro recapitando l’informazione direttamente al governo di Quito, preso in contropiede dalla sfida, che per ora si trincera dietro la linea della fermezza dicendo «non trattiamo alcunché con i sequestratori». Ma è chiaro che non sa, al momento, quali altri passi compiere.
Il presidente dell’Ecuador, Lenin Moreno, non vuol farsi risucchiare dalla spirale del botta e risposta con i sequestratori, diventati già nel lessico ufficiale «i terroristi», proprio adesso che gode dell’insperato successo della sua prima sfida politica. Moreno ha appena vinto il referendum voluto per uscire dal cono d’ombra del suo ingombrante predecessore. Per sbarrare il passo al suo ex mentore, all’uomo che l’ha voluto candidare, l’ex presidente filochavista Rafael Correa, ora diventato il suo principale avversario, Lenin Moreno ha voluto a tutti i costi un referendum che smontasse l’architrave politico dell’Ecuador dell’era Correa e l’ha anche vinto col 64 per cento dei voti.
I sette quesiti della consultazione (ristrutturazione delle istituzioni a partecipazione popolare create dai tre governi Correa, inasprimento delle sanzioni per i casi di corruzione, limiti alle estrazioni minerarie, riduzione delle aree amazzoniche riservate alla deforestazione, modifiche fiscali) piantavano un confronto personale tra i due leader, basato essenzialmente su un obiettivo: impedire la rielezione di Correa nel 2021, eliminare la possibilità della ricandidatura infinita per la carica di presidente della repubblica che esisteva già nella Costituzione dell’Ecuador e che Correa aveva cancellato per potersi perpetuare al governo.
Moreno è stato il vicepresidente del suo attuale nemico dal 2007 al 2013 ed è stato eletto al suo posto l’anno scorso. Aveva giurato in campagna elettorale di voler portare avanti e approfondire quella che Correa chiama la «Rivoluzione cittadina», la rivisitazione in chiave filochavista delle istituzioni ecuadoregne. Poi, vista la situazione continentale, considerato il tramonto dei governi degli alleati del Venezuela chavista in America Latina, Moreno ha deciso di riposizionarsi. Per far questo aveva bisogno innanzitutto di smarcarsi dal suo antico protettore.
Rafael Correa ovviamente non ci sta, ha denunciato pubblicamente «la truffa» ed è tornato apposta dal Belgio, dove si era trasferito, per organizzare la campagna referendaria contro Moreno. Ha perso, ma mantiene quasi il 40 per cento dei consensi e su quelli conta per rendere impossibile la vita al governo. Per ora invoca una nuova assemblea costituente, che non si sa come farà a convocare visto che l’abile Moreno lo ha messo di fatto fuori gioco.
Correa è stato fino a un paio d’anni fa lanciatissimo per diventare il nuovo leader continentale della sinistra radicale. S’è dato un gran da fare per essere accreditato come il nuovo Hugo Chávez. Occhi verdi, corpo atletico, economista con un discreto talento nell’interpretare struggenti boleros cubani con chitarra, ha fatto di tutto per arrivare primo nella corsa all’eredità bolivariana. E gli amici europei del defunto leader venezuelano gli hanno dato una mano. «Le Monde diplomatique», rivista di riferimento della sinistra radicale francese, gli ha fatto da anfitrione a Parigi. Con la medaglia di riconoscimento accademico della Sorbonne al collo, Rafael Correa è volato in Russia e in Bielorrusia. Con il presidente russo Putin ha firmato un pacchetto di accordi di cooperazione economica sullo sfruttamento delle risorge energetiche di cui il sottosuolo dell’Ecuador è ricchissimo. Era restato in piedi, con un appoggio popolare abbastanza saldo, nonostante lo sconquasso subito dalla sinistra di governo in America Latina.
Moreno, dal canto suo, deve ora vedersela con alleati e opposizione. Aver cacciato l’ex presidente Glas, fedelissmo di Correa, accusato di aver preso tangenti per 14 milioni di dollari dalla multinazionale brasiliana di costruzioni Odebrecht per favorirla nell’assegnazione di appalti pubblici, gli ha procurato nuovi nemici e una pericolosa spaccatura all’interno del partito di governo Alianza Paìs che ora minaccia di non sostenerlo alla presidenza.