Economia a «somma zero»

La redistribuzione dei redditi fra fasce di individui è spesso il gioco preferito dei policymaker. Ma la vera sfida rimane la crescita
/ 10.10.2016
di Edoardo Beretta

Che la globalizzazione economica sia spesso fonte di divisione fra i suoi sostenitori e detrattori, è fatto noto. Altrettanto comunemente comprovata è, inoltre, la conclusione, secondo cui nelle ultime decadi si sia assistito ad un ampliamento del divario in termini di benessere economico fra categorie di persone, dove alcune si sono arricchite persino esponenzialmente ed altre sono piuttosto rimaste «al palo» o hanno visto aggravarsi la propria condizione reddituale e patrimoniale.

I dati diffusi dall’OCSE sembrano parlare chiaro: il reddito medio del 10% della popolazione più ricca è ben nove volte maggiore del 10% di quella più povera, registrando un incremento rispetto alle sette volte di un quarto di secolo fa1. A tali ineguaglianze non è stato finora posto alcun rimedio strutturale, cioè una soluzione che incida alle origini stesse del problema con un approccio ex ante (e non ex post come nell’attuale scenario). 

Per far fronte a questa situazione ecco, invece, che i policymaker paiono avere scoperto – creando così un inaspettato sodalizio senza precedenti fra interventismi di stampo keynesiano (in alcuni settori) e laissez-faire di matrice liberista (in altri ambiti) – un vero e proprio «giocattolo» politico-economico: la redistribuzione. Ci sia consentita la metafora: come nell’infanzia i travasi d’acqua da un bicchiere ad un altro rappresentano spesso uno svago praticato, così i decisori economici si concentrano nell’avanzare proposte di riforme basate sul mero trasferimento di risorse fra categorie di persone.

Sebbene sia diffusa la convinzione, secondo cui il passaggio di un’unità di reddito da un soggetto più ad uno meno abbiente (per via della tendenzialmente maggiore propensione al consumo di quest’ultimo) stimoli la spesa corrente (e, quindi, la crescita economica), è difficile credere a meccanismi moltiplicativi dalle caratteristiche taumaturgiche: infatti, anche solo ipotizzando due individui A e B rispettivamente dotati di redditi pari a 1000 e 100 unità, come potrebbe una qualche redistribuzione dall’uno all’altro distogliere dal fatto che il reddito complessivo di entrambi rimanga – seppur diversamente allocato – pari a 1.100? In altri termini, l’intervento del legislatore non sarebbe a «somma positiva», bensì a «somma nulla», lasciando la società nel suo complesso in uno stato di ricchezza invariata. 

Certamente, l’assunto troppo spesso trascurato è che sia la sola attività produttiva e crescita economica a comportare da uniche l’innalzamento (e, certamente, non il solo travaso) del reddito complessivo. A ben guardare, la redistribuzione reddituale tramite imposizione tributaria progressiva e tariffe di erogazione di servizi (sempre più) in base alla propria forza economica potrebbe forse solo indirettamente ingenerare crescita. In realtà, la politica e l’economia paiono piuttosto volere rimediare alla crescente (e congenita) difficoltà di stimolo di società post-industriali con la mera (e, per giunta, spesso arbitraria) ripartizione reddituale.

Un approccio simile è, però, insostenibile nel tempo, poiché sottrae ricchezza agli uni per limitarsi a tamponare le difficoltà degli altri (fra cui disoccupazione o inadeguatezza salariale): i primi, quindi, sarebbero crescentemente disincentivati a produrre (per via della maggiore redistribuzione all’aumentare del reddito) e subirebbero un impoverimento relativo, mentre i secondi certo non si arricchirebbero, poiché la soluzione ai loro problemi economici rimarrebbe la sola crescita generalizzata.

A riguardo, si potrebbe sostenere che i Paesi scandinavi, nonostante siano caratterizzati da uno Stato sociale incentrato necessariamente sulla redistribuzione, spesso primeggino nelle classifiche internazionali per qualità di vita e benessere: tale «ricetta», però, non è trasponibile pari passu a nazioni con ben diversi gradi d’efficienza dell’apparato statale (che funge, appunto, da intermediario nella ripartizione fra categorie sociali). 

L’unico rimedio, che la letteratura mai ha tramandato essere stato nocivo, rimane ancora una volta la sola crescita economica. Quest’ultima, se caratterizzata da maggiore occupazione e migliori opportunità lavorative, non può essere sostituita in alcun modo: che la globalizzazione – incontrollata e repentina come è appunto stata – possa avere creato divario sociale, non può certo indurre tout court a rigettarla.

Gli Stati devono, quindi, sapere affiancare un giusto assistenzialismo ed una doverosa difesa «senza se e senza ma» di ambiti come quello sanitario e pensionistico ad una maggiore volontà di creare nuovo reddito – non trasferirlo. Come? Sia sostenendo sistematicamente le modalità lavorative più innovative (ad esempio, telelavoro, desk sharing e flessibilità in termini di tempi/modi) sia premiando il merito (individuale, scolastico o lavorativo che sia) con incentivi fiscali mirati. Nel volere demonizzare a priori la sostanza economica individuale ai fini redistributivi non ci si avvede, invece, di infliggere un’ingiusta «punizione» alla società nella sua interezza, che non può aspirare ad essere più equamente ricca, ma deve diventare equamente più ricca.

Note
1) www.oecd.org/social/inequality.htm