È scontro anche sul lockdown

Spagna – Che si tratti del conflitto tra separatisti catalani e centralisti madrilegni o della battaglia tra favorevoli alla quarantena preventiva contro No mask, è sempre braccio di ferro tra governo e magistratura
/ 19.10.2020
di Angela Nocioni

In un periodo di rischio epidemico fuori controllo, come può fare un governo di un Paese democratico per tutelare il diritto alla salute di tutti senza calpestare i diritti individuali alla libertà di ciascuno? Come può un lockdown non diventare giocoforza una condizione di libertà vigilata? E se lo deve diventare per forza e pro tempore a causa di uno stato di necessità collettivo, chi vigila sulla sua applicazione non solo affinché sia efficace ma anche perché non travalichi i confini dello strettamente necessario e non dilaghi nel sorvegliare e punire? Domande che si rincorrono in Europa sull’orlo di una seconda ondata di strette normative per contrastare la diffusione del virus Covid-19. Domande preziose: non se le possono permettere tutti ovunque. In Cina non se le pongono, chi lo fa, lo fa a suo rischio e pericolo.

Quindi non c’è da prendersela se nel Vecchio Continente ci si fa politicamente la guerra sul come e persino sul se contrastare con mezzi coercitivi la diffusione dei contagi da virus. La guerra è politica. E ci sono paesi in cui sta travolgendo i consueti rapporti di forza tra poteri istituzionali dello stato.

Il caso spagnolo è, in questo senso, clamoroso. Inedito è lo scenario aperto dallo scontro tra esecutivo e magistratura che si sta combattendo lì all’ombra del terrore da pandemia. La guerra tra governo centrale e giudici, una guerra plateale fatta di grandi colpi di teatro e esibizioni d’orgoglio latino, ha trovato nel panico da emergenza Covid un palcoscenico perfetto dopo l’estenuante tiro alla fune fra Barcellona e Madrid: decreti esecutivi annullati da sentenze, arresti di deputati, i reparti antisommossa sempre sul punto d’essere spediti con uno scatto d’ira davanti ai tribunali.

Quel che il governo di Pedro Sanchez fa, il Tribunale Supremo disfa. E Sanchez lo rimette in piedi e lo ripiazza in pista. Giocando al rilancio, alzando ogni volta la posta.

Che si tratti dell’eterno conflitto tra separatisti catalani e centralisti madrilegni, del grande classico «popolari contro socialisti», o della più recente battaglia tra favorevoli alla quarantena preventiva e No mask, sempre braccio di ferro tra governo e magistratura diventa. Il premier socialista Sanchez, con un Consiglio dei ministri straordinario, ha imposto lo stato d’allarme a Madrid in un gesto notevole d’esibizione muscolare. «Fascista», gli gridano da destra i nostalgici franchisti. «Anarchici disfattisti», rispondono ai vecchi fascisti i socialisti che con i gruppi anarchici in realtà brigano ogni tanto per tenere in piedi il governo. Lo stato d’allarme consente a Sanchez, per due settimane, di far rientrare dalla finestra il lockdown nella capitale e in otto distretti lì intorno dichiarato dal suo ministro della Salute di fronte all’emergenza epidemia a Madrid. Accogliendo un ricorso del Partito popolare (la destra al governo regionale della capitale in aperto conflitto con il governo centrale formato da socialisti, Podemos e partitini separatisti che all’occorrenza vanno in supporto al Psoe in cambio di puntuali concessioni) il Tribunale supremo ha annullato l’8 ottobre il lockdown previsto per decreto dal ministro della Salute spiegando in 26 pagine di sentenza che quel decreto «costituisce una interferenza nei diritti fondamentali senza il giusto sostegno legislativo».

Tecnicamente imputa poi al governo d’aver usato la norma sbagliata, una norma del 2003 invece che la legge del 1986 sulle misure speciali per la salute pubblica. È stata quindi inizialmente abrogata dal Supremo, in nome della libertà individuale, ogni limitazione di movimento in entrata e in uscita da Madrid perché il governo non può intromettersi con questi mezzi nel sacrosanto diritto di ciascuno di decidere per sé. Non può nonostante l’epidemia corra nella capitale più che altrove. Il tasso di contagio in Spagna è il più alto d’Europa, soprattutto nella regione di Madrid. Nel territorio spagnolo non vige più da tempo lo stato d’emergenza. Durante i primi mesi dell’emergenza Covid per 45 giorni si è usata la legge speciale che consente di limitare i movimenti per decreto. Trattasi però di strumento di legge che ogni 15 giorni dev’essere rinnovato (cioè rivotato in Parlamento e approvato a maggioranza assoluta, 176 voti) altrimenti decade.

Sanchez, però, conta solo su 155 voti sicuri sempre, gli altri se li deve andare a cercare volta per volta. Dopo due proroghe ai poteri emergenziali è stato invitato dalle opposizioni (anche dai separatisti catalani che un po’ gli danno corda, un po’ no) a inventarsi un’altra strada. Il problema per lui è che, se non vige lo stato d’emergenza, qualsiasi limitazione delle libertà fondamentali può essere censurata dal potere giudiziario. E il Tribunale supremo ha colto al balzo l’occasione per schiaffeggiare il premier socialista e ricordargli che se vuol governare col bastone deve comunque trovare «strumenti costituzionalmente consoni alla possibilità di limitare, centellinare, restringere o addirittura sospendere i diritti fondamentali dei cittadini».

I giudici hanno avallato nei mesi scorsi, senza eccepire un bel nulla, altre pesanti restrizioni alla libertà di movimento decise dal governo locale di Madrid in mano alla stella in ascesa del Partito popolare, Isabel Diaz Ayuso. Abbondano quindi i sospetti pesanti di doppiopesismo. Ma i popolari negano di godere di protezione politica da parte della magistratura come corporazione nella loro legittima guerra al governo socialista. Dicono che il decreto del Ministero della salute aveva effetti su una zona geograficamente più ampia di quelle interessate dai loro provvedimenti locali e che quindi serviva una legge del Parlamento per imporre il lockdown, non poteva bastare un decreto ministeriale. La destra classica sta tutta dalla parte delle rivendicazioni di libertà sbandierate dal Tribunale supremo.

Dopo l’imposizione governativa di un nuovo stato d’allarme limitato a Madrid e a otto distretti, decisione che ricaccia all’angolo il Tribunale supremo, i toni sono diventati da scontro totale. Anche perché il protagonismo politico della Suprema corte s’è scatenato ben oltre il terreno della gestione dell’emergenza da pandemia. A fine settembre l’Alto Tribunale ha cacciato d’imperio il presidente del governo catalano, Quim Torra.

Torra, separatista arrivato al governo per caso nel grande can can del tira e molla sulla secessione di Barcellona da Madrid (ma pur sempre presidente eletto), è stato cacciato dal governo per disobbedienza. Ha disobbedito infatti all’ordine di far rimuovere dai palazzi delle istituzioni catalane i fiocchi gialli simbolo di solidarietà con i leader separatisti catalani arrestati per essere insorti come capipopolo a guidare il tentativo di strappo di Barcellona da Madrid. Strappo avvenuto tutto contro la legge, utilizzando illegittimamente da un punto di visto giuridico lo strumento del referendum, dentro una battaglia dai toni isterici combattuta con scaltrezza e con alte dosi di opportunismo e di irresponsabilità. Ma pur sempre una battaglia politica.

L’inabilitazione a causa del gesto disobbediente era stata decisa dal massimo organo di giustizia della Catalogna. Torra era ricorso al Tribunale supremo che ha ratificato la decisione di farlo fuori. Comunque la si pensi riguardo alla eterna guerra tra Barcellona e Madrid e ai mezzi usati negli ultimi anni dai leader indipendentisti catalani per combatterla, difficile negare che il potere giudiziario e in particolare il Tribunale supremo si ritagli spazi di protagonismo politico assoluto e prenda decisioni che assai poco hanno di tecnico. In questo caso è stato il Tribunale supremo, cacciando Torra, a far indire le elezioni catalane del prossimo febbraio.

Alle quali si arriverà in un tale terremoto di alleanze che la ricaduta di quella sentenza sulla politica nazionale sarà, comunque vada, gigantesca. Anche perché la crisi catalana è un grande blob in grado di divorare ogni ragionevolezza e ogni confronto possibile sui programmi. Il suo effetto politico concreto, finora, non è stato di riuscire a cavare un solo ragno dal buco nella spinosissima vicenda delle relazioni tra Barcellona e Madrid, ma mettere le ali in tutta la Spagna alla destra feroce e razzista del partitino Vox.