Trump sta azzardando una rivoluzione geopolitica che potrebbe mettere in pericolo la primazia americana nel mondo. Il principio regolatore della sua politica estera è infatti la creazione di posti di lavoro in casa propria, il rilancio della manifattura e l’aggiornamento delle infrastrutture nazionali. Tutto il resto deriva di qui. A cominciare dal protezionismo e dalla messa in naftalina dei progetti obamiani di aree di libero scambio nell’Atlantico e nel Pacifico.
Allo stesso tempo, la nuova amministrazione è convinta di essere in piena guerra mondiale contro il radicalismo islamico. Non è più guerra al terrorismo, ma a una religione che usa il terrorismo. Impegno potenzialmente infinito. E che necessita di tutte le risorse disponibili. Di qui anche il riavvicinamento alla Russia, utile su questo fronte.
Quanto a noi europei, siamo sostanzialmente inutili. D’altronde, l’unica potenza veterocontinentale che interessa Trump è la Germania, accusata di manipolare l’euro e dunque combattuta come avversario nella competizione commerciale, e non solo.
Resta da vedere come Trump saprà contenere e battere i contropoteri americani che si oppongono alla sua rivoluzione: un presidente in conflitto con la sua intelligence è novità assoluta. Ma anche nelle burocrazie, negli apparati, nel sistema giudiziario e nello stesso Congresso non mancano le forze disposte a sgambettarlo. Persino a organizzare un impeachment, se necessario.
Il principale rivale degli Stati Uniti, sulla scena mondiale, rimane la Cina. Nemico ideologico, geopolitico e commerciale. Unica potenza in grado, sulla carta, di superare gli Stati Uniti come fattore di potenza globale. Infatti, Cina e Stati Uniti sono in rotta di collisione. Con paradossale inversione dei ruoli classici, Xi Jinping si offre al mondo come araldo della globalizzazione e alfiere dell’economia verde. Per questo usa financo la tribuna di Davos, sancta sanctorum dell’élite capitalista. Donald Trump si erge a campione del protezionismo. Non essendo né filosofi né moralisti, entrambi considerano le rispettive strategie in linea con gli interessi nazionali. La Cina ha bisogno dei mercati mondiali, a cominciare da quello americano. Di più: i mandarini al potere sanno che il crollo delle esportazioni potrebbe comportare la loro fine. Gli Stati Uniti – non solo la nuova amministrazione – accusano i cinesi di barare al tavolo del commercio, mettendo a repentaglio benessere, coesione e sicurezza della superpotenza. E virano verso una strategia di strangolamento della Cina, dopo il pallido contenimento obamiano.
L’offensiva di Trump ha una componente retorica che si esprime anche nel linguaggio diretto, a uso e consumo del suo elettorato. I cinesi conoscono questa tecnica. Non era Mao stesso a scherzare con Kissinger sulle «cannonate a salve» che di tanto in tanto si divertiva a sparare per mobilitare la sua gente e spaventare i nemici? Ma la stagione dell’allineamento antisovietico fra Washington e Pechino è passato remoto. Allora i leader dei due paesi si intendevano (quasi) al volo perché coltivavano il medesimo disegno in quanto coerente con la rispettiva geopolitica. Nel tempo le strategie si sono divaricate. Non ci si sforza troppo di entrare nella testa altrui, o lo si fa attribuendo all’interlocutore la propria logica. Codici culturali, stereotipi e pregiudizi disturbano la comunicazione fra leader cinesi e americani. Quando Obama discuteva con Hu o con Xi non ne usciva un dialogo, solo due monologhi paralleli. Possiamo figurarci quale empatia muoverà Trump e Xi. Non capirsi è grave sempre, ma diventa pericoloso in tempi di crisi. Perché la contrapposizione sino-americana non è mera propaganda, discende dal conflitto fra interessi difficilmente componibili.
Gli ottimisti assicurano che economia e finanza dei due paesi sono talmente imbricate da escludere la guerra, armata o commerciale. Risuonano le sfortunate tesi di Norman Angell sulla futilità dello scontro militare fra economie interdipendenti, che precedettero di pochi anni lo scoppio della Grande guerra. Seguendo tale copione, il neonazionalismo cinese si piegherà all’imperativo di accedere al mercato americano e alla coscienza della superiorità militare a stelle e strisce. Il protezionismo trumpiano, espressione geoeconomica del nazionalismo americano, vorrà autolimitarsi per evitare le rappresaglie della Cina contro le merci americane prodotte sul suo territorio. E per non correre il rischio che a Pechino qualcuno per disperazione prema il bottone rosso della mutua distruzione assicurata, convertendo oltre un trilione di buoni del Tesoro Usa in euro.
Valutazioni più realistiche inducono a considerare che un grande compromesso sino-americano sia tutt’altro che scontato. Comunque sarebbe preceduto da una lunga fase di turbolenza, nella quale l’improbabile slittamento verso il ricorso alle armi non potrebbe essere escluso.
Per questo occorre tenere d’occhio due scenari: quello coreano, con il regime del Nord che sta allestendo missili balistici in grado di colpire gli Usa, e che Washington considera erroneamente un alleato di Pechino; e i mari cinesi, oggetto di permanente disputa di sovranità fra la Cina e i suoi vicini, più o meno appoggiati dagli Stati Uniti. Se la competizione fra Usa e Cina diventerà calda, la guerra probabilmente scoppierà in uno di questi due quadranti geopolitici. E, come quasi sempre, sarà per caso, non per una precisa strategia.