Mentre il fuoco divora foreste in California, in Amazzonia, in Siberia, in Sardegna, mentre in Germania e in Belgio si contano le vittime e i danni delle spaventose inondazioni di luglio incrociando le dita in attesa di quelle di agosto, i responsabili politici e scientifici si avvicendano al capezzale del pianeta malato. È un ritornello che sentiamo da tempo ma è per così dire sempre più vero: il surriscaldamento dell’atmosfera e il clima impazzito che ne deriva stanno per raggiungere il punto di non ritorno. La necessità di intervenire è ormai della massima urgenza e poiché le avversità climatiche scavalcano ogni frontiera, il fenomeno chiama in causa la comunità internazionale. In novembre si celebrerà a Glasgow la ventiseiesima conferenza delle parti, Cop26 nel linguaggio diplomatico: un appuntamento davvero cruciale. Ci sono state alcune riunioni preliminari: i ministri dell’ambiente del G20 si sono incontrati a Napoli, successivamente si è svolta a Londra una riunione allargata a una cinquantina di Stati per sgombrare il campo dagli ultimi ostacoli (25 e 26 luglio).
Hanno attivamente partecipato a questo lavoro preparatorio anche i rappresentanti della Cina, che finora ha reagito con paralizzanti riserve alle sollecitazioni del mondo perché riducesse le emissioni di composti del carbonio e dunque l’effetto serra. È la conferma che i tempi stringono, la degenerazione ambientale aumenta, i suoi effetti sul clima sono sotto gli occhi di tutti e nessuno può tirarsi indietro. A Glasgow sono chiamati i rappresentanti di tutti i Paesi del mondo. Tutti consapevoli, compresi coloro che finora hanno difeso a spada tratta il loro orticello, che siamo ormai all’ultima spiaggia. Infatti gli specialisti sono concordi: questo vertice in terra di Scozia offre l’ultima possibilità per affrontare il cambiamento climatico, correggere la tendenza, bloccarla e se possibile ribaltarla. Ventiseiesima conferenza. Questa numerazione rivela che ormai da quasi trent’anni il mondo è consapevole del dramma che lo minaccia e ha messo in moto un meccanismo destinato a frenare e invertire il processo. Ma i risultati sono a dir poco deludenti, in questi tre decenni la situazione è andata peggiorando in progressione allarmante.
Il lungo cammino della diplomazia ambientale comincia nel 1992 con la conferenza di Rio de Janeiro: in quella sede l’Onu lancia la Convenzione per i cambiamenti climatici e avvia la successione delle annuali conferenze delle parti. Il lavoro si annuncia assai arduo, non è facile mettere d’accordo un mondo così eterogeneo, sia pure di fronte a un incubo di fatto unificante. Si comincia a discutere sulle misure da adottare e ovviamente emerge la necessità non soltanto di interrompere l’assalto speculativo al patrimonio forestale, ma anche di ridurre le emissioni dei gas a effetto serra prodotti dalla combustione di materiali fossili come il petrolio e soprattutto il carbone.
Immediatamente si fa strada un contrasto di fondo, da una parte gli Stati di consolidata industrializzazione, dall’altra quelli che si sono affacciati più di recente alla ribalta dello sviluppo. Questi ultimi muovono un’obiezione: i Paesi industrializzati, in pratica l’Occidente euro-nordamericano più Giappone, Australia e pochi altri, sono i principali responsabili del disastro, e ora pretendono che il resto del mondo freni i suoi piani di sviluppo per lottare contro un’emergenza di cui non ha colpa. L’argomento non è certo privo di logica, ma il fatto è che se giganti come la Cina e l’India, abitati complessivamente da un terzo della popolazione mondiale, dovessero completare il loro sviluppo con modalità simili a quelle che proiettarono l’Occidente nella modernità per questo pianeta sarebbe la fine.
Un’altra resistenza è quella dei Paesi che ricavano energia dal carbone estratto dal loro sottosuolo, la più inquinante fra le fonti di energia, e non intendono rinunciarvi investendo nelle rinnovabili: acqua, sole, vento, idrogeno. Si vara un sistema di compensazioni, chi può permetterselo finanzierà la conversione e lo sviluppo «verde» degli altri Stati. Ma si bisticcia sull’entità degli stanziamenti e intanto il degrado va avanti indisturbato: si sciolgono i ghiacci, si alza il livello dei mari, si modificano la salinità e l’acidità delle acque, incendi devastanti e uragani terrificanti si susseguono da un capo all’altro del pianeta. Perfino la pandemia che oggi ci affligge potrebbe essere scaturita, secondo una delle tante teorie, da una causa ambientale come la deforestazione e le sue conseguenze su alcune specie animali. Alla conferenza di Parigi del 2015 si traducono in numeri gli obblighi che s’impongono per mettere il fenomeno sotto controllo.
Se si vuole scampare all’irreversibilità del cambiamento climatico è necessario fare in modo, riducendo le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra, che in un tempo ragionevole la temperatura media del pianeta si riduca di un grado e mezzo rispetto ai valori che precedettero la rivoluzione industriale. L’accordo non si limita a stabilire ciò che è necessario ma precisa anche ciò che è auspicabile. Infatti un grado e mezzo potrebbe non bastare, sarebbe meglio arrivare a due gradi. Questa compresenza del necessario e dell’auspicabile rivela la cautela, legata alle accanite resistenze di molti Paesi, con cui è stata perfezionata l’intesa parigina. Nonostante questo c’è chi la considera inutilmente gravosa, per esempio il presidente americano Donald Trump disconobbe l’accordo di Parigi sostenendo che si fondava su un’incidenza sopravvalutata delle attività umane sui fenomeni naturali.
Sia pure attualmente distratte dalla pandemia e dai suoi strascichi economici e sociali, le opinioni pubbliche hanno assimilato la gravità della situazione e l’urgenza di correre ai ripari. Anche grazie all’irruzione sulla scena di un’adolescente attivista svedese, Greta Thunberg, che arringò i potenti della terra parlando all’assemblea delle Nazioni unite: ma non vi vergognate per come avete ridotto il mondo?, domandò loro scoppiando in lacrime. Greta non andrà a Glasgow, dice che potrebbero esserci molte assenze a causa della pandemia e dunque la conferenza andrebbe rinviata. Inoltre teme che sarà la solita passerella di politici chiacchieroni.
Auguriamoci che venga smentita, che si voglia finalmente passare dalle polemiche ai fatti. L’Unione europea si pone all’avanguardia dell’attivismo ambientalista, l’Amministrazione americana è cambiata e non è più ostile alla crociata ecologica, la stessa Cina si dice intenzionata a fare la sua parte, anche se figura tuttora, con Russia, Brasile e Australia, nel gruppo di chi non vuole subordinare l’economia alla difesa dell’ambiente. Sarà dura. Chi dovrà fare sacrifici pretenderà aiuti consistenti. Si prevedono resistenze accanite, ma di fronte alla drammatica alternativa questa potrebbe essere la volta buona per superarle. E così il sogno di Thunberg, un pianeta pulito e vivibile, diverrebbe un po’ meno utopistico.
È l’ultima spiaggia
Emergenza climatica, il lungo cammino della diplomazia ambientale dalla Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992 alla Cop26 di Glasgow
/ 02.08.2021
di Alfredo Venturi
di Alfredo Venturi