«Momentum», è la prima parola che viene in mente, ma è latino prestato all’inglese. La tradurrei con «abbrivio», vocabolo caduto in disuso, che il mio dizionario Devoto-Oli definisce magnificamente come «la prima spinta impressa a una nave dai mezzi di propulsione, che ancora conserva dopo che questi hanno cessato di funzionare». Come descrivere meglio l’economia americana che fa il suo ingresso nel 2018 con otto anni di crescita alle spalle? Cosa potrebbe andare storto, partendo da una premessa così positiva? Per estensione, il giudizio si potrebbe estendere all’intera economia mondiale, come vedremo.
Diamo a Cesare... cioè Trump, quel che gli spetta. È vero che lui aveva ereditato un anno fa un’economia risanata da Obama e con già alle spalle sette anni di ripresa post-crisi. Il lavoro sporco, tipo salvare le banche e l’industria automobilistica, lo fece Obama e pochi gliene danno atto oggi. È anche vero però che sotto la presidenza Trump la velocità di crescita ha subito una netta accelerazione, da una media del 2% siamo passati a un Pil che cresce del 3%. Il mercato del lavoro ha continuato a migliorare nonostante che siamo sempre più vicini al pieno impiego (teorico) e quindi gli ulteriori progressi diventano più difficili. Non parliamo poi dei mercati finanziari dove la luna di miele con Trump dura da 12 mesi. E nessuna delle previsioni catastrofiste si è avverata: neppure quella su una guerra protezionista che avrebbe precipitato una spirale di ritorsioni. Le imprese americane hanno vissuto questi 12 mesi con un’ottimismo in totale contrasto rispetto all’atmosfera dominante sui media. (È bene riconoscere che sull’impatto economico-finanziario di Trump abbiamo collezionato errori).
Il regalo fiscale di fine anno era atteso, era quello il grande premio che ha galvanizzato le Borse per tutto il 2017. Aggiungiamoci quel tanto di deregulation (ambiente, finanza) che Trump ha decretato a colpi di ordini esecutivi. Il migliore dei mondi, profitti alle stelle; e se vale il teorema reaganiano dai piani alti tutto questo bendiddio scenderà pure a valle e nel 2018 avremo finalmente anche degli aumenti salariali come Dio comanda. Dunque sostegno ai consumi, altro carburante per la crescita, e via andare.
Fino alla scadenza fatidica di novembre, quando toccherà agli elettori pronunciarsi. Legislative di mid-term, si rinnova tutta la Camera e un terzo del Senato, al giro di boia di mezzo mandato presidenziale. Qui si presenta l’incognita principale del 2018. Come si è visto negli ultimi test elettorali parziali – Virginia New Jersey Alabama – i democratici hanno il vento a favore. La prospettiva di una loro rivincita tra 11 mesi è verosimile. Gli basta riprendersi la maggioranza in uno solo dei due rami del Congresso, e visto il bi-cameralismo quasi perfetto del sistema americano, soprattutto in tema di manovre di bilancio, conquisterebbero un potere di veto. Il governo monocolore Trump-repubblicani in tal caso sarà durato solo due anni. Come accadde peraltro a Obama. È ormai un classico del comportamento elettorale americano: il pentimento arriva presto, prima eleggiamo un presidente, poi alla prima occasione gli impediamo di governare. Una simile prospettiva però significa che la nuova edizione della reaganomics avrà avuto vita breve. Una maggioranza di sinistra al Congresso tenterebbe di smantellare la normativa fiscale di Trump con lo stesso accanimento con cui lui ha cercato di demolire la riforma sanitaria Obamacare. Per le imprese e gli investitori questo fa gravare un grosso punto interrogativo sul 2018. Che comunque si apre come un anno problematico. Tutti gli anni elettorali lo sono. I calcoli di chi deve farsi rieleggere interferiscono con il governo dell’economia.
Cosa cercherà d’incassare Trump finché ha questa maggioranza a disposizione? Indovinare le mosse di questo presidente è uno sport estremo. Almeno una guida ce l’abbiamo: è uno che cerca – non sempre ma abbastanza spesso – di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Allora i tre cantieri di riforma coi quali dovrebbe cimentarsi nel 2018 sono protezionismo, immigrazione, infrastrutture. Complicati, ma difficili da evitare se Trump vuole conservare il consenso del suo zoccolo duro, in particolare la classe operaia del Midwest, i ceti medio-bassi nell’America profonda.
Sul protezionismo impera una narrazione standard, che descrive «Trump isolato contro il resto del mondo». Come sull’ambiente, o sul Medio Oriente. Stereotipi a gogò, fuorvianti e inutili. Vi contribuisce, sia chiaro, il tam tam dell’establishmennt progressista americano a cui fa comodo accentuare il senso di isolamento del presidente. Di certo è una descrizione inadeguata se si parla del commercio internazionale. L’idea che al Wto emerga un asse euro-cinese, nuovo motore propulsivo della globalizzazione, è esilarante. L’Unione europea è vittima della concorrenza sleale cinese, quanto gli Stati Uniti. L’agenda protezionista di Trump riprende alcuni temi sacrosanti che per anni furono cavallo di battaglia delle sinistre occidentali e dei sindacati. Le regole vanno riscritte, quelle esistenti vanno fatte rispettare e la Cina è maestra nell’aggirarle. L’intero patto che presiedette alla nascita del Wto e alla cooptazione della Cina fra il 1999 e il 2001 si fondava su un mondo che non c’è più, le regole erano squilibrate in favore di un gigante povero che da allora ha fatto progressi enormi. Il problema di Trump è che ha una squadra del tutto inadeguata rispetto al compito immane di riscrivere le regole, e organizzare una coalizione di forze che riesca a estrarre delle concessioni ai cinesi. Qualcosa dovrà fare, però: dalle misure anti-dumping alle ritorsioni per il furto sistematico di proprietà intellettuale.
Sull’immigrazione la strada è ancora più tortuosa. Trump ha usato gli ultimi due attentati di New York per rilanciare la sua offensiva contro intere categorie di visti. Lui vorrebbe eliminare la lotteria delle Green Card riservata a minoranze etniche. Inoltre vorrebbe colpire i cosiddetti «visti a catena», quelli che il primo titolare può estendere ai familiari. Sono obiettivi legittimi, sia perché li promise in campagna elettorale e fanno parte del suo patto con chi lo ha votato, sia perché ogni nazione ha il diritto di stabilire e modificare le regole d’ingresso degli stranieri. Tuttavia è proprio sul terreno dell’immigrazione che l’opposizione democratica è più intransigente visto che nella sua base elettorale le minoranze etniche hanno un peso importante. Con i nuovi rapporti di forze al Senato – post-Alabama – i repubblicani hanno un margine di 51 a 49, basta la defezione di uno o due repubblicani dissidenti per far deragliare qualsiasi testo di legge. I democratici esigeranno compromessi. Non scommetteri molto su una riforma dell’immigrazione in questo clima. Un terreno ideale di compromesso con l’opposizione invece sarà il maxi-piano d’investimenti in infrastrutture. Trump ci proverà. Deve convincere l’ala rigorista (pro-pareggio di bilancio) del suo partito. Sarebbe una bella spinta per la crescita, oltre che un’esigenza sacrosanta per un paese dove le infrastrutture cascano a pezzi.
Dunque: la festa continua. Se qualcuno ha l’intenzione di fischiare la fine della ricreazione, ancora non si è manifestato. Non basta il canto del cigno di un politico pessimista come Wolfgang Schaeuble a cambiare il quadro. Magari un giorno si scoprirà che aveva ragione lui, e quindi avevamo ragione pure noi. Ma il tempo passa ed è almeno da un anno e mezzo che abbiamo torto. Da quando ospitammo – non necessariamente a nostra firma, ma non importa – fior di scenari apocalittici sul dopo-Brexit e dopo-Trump. Crolli dei mercati, panico, avvitamento dell’economia globale in una spirale recessiva da protezionismi. Tutte balle, ex post, bisogna riconoscerlo.
Dicevo di Schaeuble, il longevo ministro delle Finanze tedesco che si congeda con un avvertimento cupo. Schaeuble ha unito la sua voce a un coro – minoritario ma consistente anche qui negli Stati Uniti – di conservatori pessimisti. Sono quelli convinti che siamo in una gigantesca e pericolosissima bolla creata dalle banche centrali, che con il loro «quantitative easing» hanno completamente falsato il mercato. La spiegazione ha una solida logica. Dal punto di vista macro, viviamo in un mondo inondato di liquidità dopo anni di acquisti di bond. Dal punto di vista micro, ogni singolo risparmiatore che dialoga con un consulente finanziario si sente proporre la stessa alternativa in base alla quale si muovono grandi flussi di capitali: se la sicurezza dei buoni del Tesoro significa accettare rendimenti microscopici, perché non salire sulla locomotiva delle Borse in cerca di affari migliori?
Mi sposto verso un’area centrale nei destini dell’economia globale: la Cina. È lì che abbiamo visto l’epicentro dell’ultima «potenziale» crisi finanziaria. Tra l’estate 2015 e il gennaio 2016 il mondo intero ha tremato per alcuni scossoni che venivano dalla Cina: un principio di svalutazione del renminbi, fughe di capitali, cadute delle Borse. Ma la potenziale crisi non si è poi realizzata, l’allarme è rientrato. Ancora una volta per un intervento dall’alto: il dirigismo di Xi Jinping ha raddrizzato la situazione. Così come da noi si può sostenere che c’è un’euforia artificiale creata dalle banche centrali, in Cina c’è un senso di sicurezza che è frutto di un robusto intervento pubblico. L’una e l’altra situazione possono nascondere elementi di fragilità. Nel caso della Cina sono ben noti: sistema bancario malato e altissimo debito pubblico (300% del Pil, altro che Italia). Correttezza impone però di ricordare questo: è da quando facevo il corrispondente a Pechino (2004-2009) che sento pronosticare il tracollo imminente del sistema bancario cinese.