È la Libia il fronte di Putin

Mondo arabo – Nel caos libico e alla luce di una sempre più lontana alleanza con Trump, la Russia si riconferma protagonista
/ 13.03.2017
di Anna Zafesova

«Per otto anni la Russia ha prevalso sul presidente Obama, diventando sempre più forte, prendendo la Crimea e incrementando i missili. Debole!». Il tweet di Donald Trump può anche essere letto più come un attacco al suo predecessore che a Vladimir Putin, ma insieme alla dichiarazione del portavoce della Casa Bianca che la Russia deve «restituire» la Crimea all’Ucraina, viene letta a Mosca come la fine del grande sogno di un’alleanza con un’America che passa dalla parte dei russi. Il presidente del comitato Esteri della Duma Leonid Slutsky ammette sconsolato: «Noi pensavamo che Trump potesse essere filorusso, ma è prima di tutto filoamericano». E il viceministro degli Esteri Serghey Riabkov confessa alla camera bassa del parlamento russo che «il livello delle relazioni russo-americane è sotto zero», e che non è in vista alcuna agenda condivisa e condivisibile tra Mosca e Washington.Intanto i dossier della discordia continuano a moltiplicarsi. Anche se si cerca di ignorare lo scandalo mediatico sulle «Russian connections» del nuovo presidente americano, che ha creato nell’establishment Usa un fronte antirusso bipartisan, e concentrandosi solo sulla Realpolitik, sul versante militare è arrivato lo scontro sullo scudo antimissile americano in Corea del Sud, e il Cremlino ha già promesso una risposta simmetrica al progetto di Trump di incrementare l’arsenale nucleare degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l’economia, il progetto di abolire le sanzioni imposte alla Russia per l’annessione della Crimea e l’intervento nel Donbass pare essere stato accantonato a causa dell’opposizione del Congresso, e i piani di svincolare le esplorazioni petrolifere rischiano di abbassare il prezzo del barile, e quindi colpire le casse russe. Il vertice Donald-Vladimir, che a un certo punto veniva dato per imminente, è stato spostato in fondo all’agenda della Casa Bianca, e pare che i due presidenti si incontreranno per la prima volta soltanto al G20 di giugno, un appuntamento a margine di un summit internazionale.Sul piano internazionale la situazione è altrettanto poco promettente. Il «Wall Street Journal», citando fonti europee, sostiene che Bruxelles ha avuto da Washington garanzie che «gli Usa non consegneranno l’Ucraina e l’Europa dell’Est alla sfera d’influenza russa».

Trump ha già mostrato di considerare come rivale strategico la Cina, importante alleato economico e strategico di Mosca, e l’Iran, con cui il Cremlino ha un’intesa soprattutto in Siria. «Ci toccherà fare una scelta», dice a Gazeta.ru l’orientalista della Scuola superiore di economia di Mosca Leonid Isaev: «Tentare il reset con gli Usa, senza nessuna garanzia di proiettarne l’eventuale successo sull’Ucraina e le altre zone di crisi, oppure restare con l’Iran, rendendoci conto che gli americani, Trump incluso, non vorranno cooperare con noi».Sui potenziali attriti con Teheran pesa anche l’eventuale spartizione della Siria, nella quale russi e iraniani andrebbero a competere per la stessa zona, Damasco e i territori controllati dal loro comune alleato Bashar al-Assad. Tra pochi giorni a Mosca dovrebbe arrivare il presidente iraniano Hassan Rohani, anticipato dalla proposta del presidente del parlamento di Teheran, Ali Larijani di una «alleanza strategica con la Russia in Medio Oriente».

E intanto Putin ha incontrato Recep Tayyip Erdogan, con il quale sembra aver definitivamente superato le recenti divergenze, per discutere della partita siriana.In attesa di tornare nemici come prima con Washington, Mosca sta usando il suo intervento in Siria come leva per tornare protagonista in Medio Oriente, regione che non si trova in cima agli interessi della nuova amministrazione di Trump, e che il Cremlino sente di aver perduto con la fine dell’Unione Sovietica, e con le primavere arabe. Il nuovo fronte russo sembra aprirsi ora in Libia, dove Mosca è entrata con prepotenza, scommettendo sul generale Khalifa Haftar, ospite frequente della capitale russa nell’ultimo anno. Secondo alcune indiscrezioni, i guerriglieri dell’uomo che controlla la zona della Libia più ricca di petrolio sono stati mandati a curarsi in Russia, e a gennaio il generale è salito a bordo della portaerei russa Admiral Kuznetsov per una videoconferenza con il ministro della Difesa russo Serghey Shoigu, durante la quale, secondo Al Jazeera, avrebbe promesso ai russi basi militari a Tobruk e Bengasi.

La Libia è importante per i russi per le sue riserve petrolifere – la major statale Rosneft ha appena firmato un contratto di cooperazione con la controparte libica Noc – che permetterebbero ai russi di espandere i propri interessi ben oltre i propri giacimenti, avviati verso l’esaurimento, controllando più o meno direttamente una fonte di idrocarburi cruciale per l’Europa, intenzionata ad affrancarsi dalla dipendenza energetica da Mosca. Ma ancora più rilevante è l’aspetto politico: Vladimir Putin era contrario all’intervento occidentale in Libia (in quel momento il presidente era Dmitry Medvedev, non aveva fatto ricorso al veto all’Onu, facendo infuriare Putin, all’epoca capo dell’esecutivo), e aveva vissuto l’atroce fine del colonnello Gheddafi come un sinistro presagio di quello che gli occidentali volevano avvenisse ai leader a loro sgraditi. Recuperare la Libia, e presentarsi come colui che sana le ferite causate dall’ingerenza occidentale, sarebbe un segnale importante non solo per il resto del mondo arabo – nel quale è diffusa l’opinione che l’America con Obama avesse voltato le spalle agli alleati – ma soprattutto per i russi. Senza contare che la stabilizzazione libica è cruciale per l’Europa, che spera così di fermare l’ondata di profughi, e un contributo russo farebbe sicuramente guadagnare punti diplomatici al Cremlino.

Molti europei sono però preoccupati che l’appoggio dei russi ad Haftar possa avvenire a scapito dell’unità libica, e il ministro degli Esteri Serghey Lavrov ha invitato nei giorni scorsi a Mosca il capo del governo di Tripoli Faiez Serraj, per ribadire di rimanere allineata alla diplomazia internazionale. Haftar è appoggiato dall’Egitto del presidente al-Sisi, la cui alleanza con Mosca si sta consolidando di mese in mese, e se Putin riuscisse a portare Haftar al potere in Libia, ricostruirebbe in Siria un nuovo asse filorusso, formato da Haftar, Assad e al-Sisi, gli eredi dell’alleanza di dittatori arabi laici che orbitavano intorno alla Mosca comunista. Il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha ammonito i russi: «L’orso tenga le zampe lontane dalla Libia», per sentirsi rispondere da Shoigu che «non tutti i gatti sono leoni, nel vostro zoo non ci sono animali che possano fermare l’orso».

L’ipotesi di una fascia del Mediterraneo controllata dai russi, anche militarmente, confermerebbe che la diplomazia di Mosca pensa di continuare a giocare il suo risiko contro gli Usa, anche alla luce delle elezioni presidenziali che si terranno nel 2018, e che forse verranno spostate nella data del quarto anniversario dell’annessione della Crimea, in una consacrazione imperiale del regime. La Russia sta giocando su più fronti, sfruttando tutto il capitale di immagine accumulato nella guerra in Siria, che però sta presentando un conto economico e umano sempre più pesante. Mentre gli scenari più lontani sembrano promettenti, il Cremlino però ora fatica a ricucire fratture nel cosiddetto «vicino estero» dell’ex Urss.

Putin ha appena compiuto un tour nell’Asia Centrale, dove ha dovuto accettare il drastico taglio dell’impegno del Kyrgyzistan a mantenere la base militare russa a Kant, da 49 a soli 15 anni. Il presidente kirghizo Almazbek Atambaev si è anche lamentato della partecipazione del suo Paese all’Unione economica euroasiatica, la «anti-Ue» creata da Putin (gli interscambi tra i membri nel 2016 sono scesi del 16-18%), incassando dai russi diversi miliardi di aiuti e finanziamenti. La seconda tappa di Putin è stato il Tagikistan, che non ha ancora ratificato il contratto di proroga della base militare russa, aspettandosi gli stessi privilegi dei kirghizi. Prossimamente il presidente russo dovrebbe recarsi anche in Uzbekistan, che per ora si rifiuta di aderire all’Unione euroasiatica.

Ma la minaccia principale alle alleanze postsovietiche di Putin sta provenendo ora dalla fedelissima Bielorussia, che sta contestando Mosca su tutto, dal prezzo che deve pagare per il gas ai piani russi di fondare una base della sua aviazione a Bobruysk. Il leader bielorusso Lukashenko si rifiuta di chiudere le frontiere con l’Europa alle merci sanzionate dalla Russia, e le indiscrezioni dei media parlano di una uscita di Minsk da tutte le alleanze con Mosca, incluso il patto sulla sicurezza collettiva, scoprendo il Cremlino sul suo versante più strategico, al confine con l’Europa e la Nato.