È la quarta volta in quattordici anni che sentiamo decretare da molti pulpiti: la globalizzazione è finita. Sarà questa la volta buona, per colpa di Putin che invadendo l’Ucraina ha costretto l’Occidente a varare sanzioni economiche senza precedenti per la loro durezza? Le grandi manovre della Cina per salvare il leader russo senza incorrere a sua volta nelle sanzioni sono emblematiche della strettoia in cui ci troviamo. Ma anche la notizia clamorosa che l’Arabia Saudita potrebbe mollare il dollaro e passare al renminbi cinese per le sue vendite di petrolio a Pechino, è sintomatica di un «nuovo ordine» (alternativo al nostro) che tenta di farsi strada in mezzo al fragore delle bombe.
La prima Apocalisse annunciata fu dopo la crisi sistemica della finanza, causata nel 2008 dallo schianto dei mutui subprime a Wall Street. Lo shock fu davvero forte, la più grave recessione globale dal dopoguerra. L’Eurozona si fabbricò in casa un prolungamento di quella crisi americana, infliggendosi un’austerity di bilancio con conseguenze funeste. Il trauma fu tale che nacquero spinte politiche divaricanti: negli Stati Uniti movimenti di radicalizzazione a sinistra e a destra che destabilizzano tuttora il sistema politico. La Brexit inglese e Donald Trump sono figli di quello shock. Il 2008 segna una brutale disillusione sugli effetti della globalizzazione: ampie fasce di elettorato popolare si convincono di essere state beffate dalle élite. L’ideologia globalista comincia a perdere quota, chi predica i benefici delle frontiere aperte (ai movimenti di beni e servizi, ai capitali, alle migrazioni) viene visto come un impostore al servizio dell’establishment. Ma non scatta un cambio di paradigma. Anche perché, nel disastro del 2008, spicca una grande assente: la Cina non ha avuto una recessione, si è salvata manovrando le leve della spesa pubblica, il suo capitalismo di Stato ha superato la prova. Nasce lì una dottrina sulla superiorità del sistema cinese e Xi Jinping comincia la sua ascesa. La Cina resta attaccata al suo ruolo di fabbrica del pianeta, ha bisogno di sbocchi globali per i suoi prodotti e sempre più per i suoi investimenti. La globalizzazione si salva perché c’è un chiaro interesse di Pechino a salvarla, d’intesa con l’establishment capitalistico americano.
La seconda morte annunciata avviene con la doppietta Brexit-Trump nel 2016-2020. Il Regno Unito amputa l’Unione europea che è il più vasto esperimento di mercato unico. Con Trump vince un sovranista che predica il protezionismo, e lo applica. I dazi americani sui prodotti cinesi – e su qualche prodotto europeo e canadese – cominciano a salire già dal 2017-2018. La maggior parte degli economisti, che sembrano diventati millenaristi, seguaci delle profezie sulla fine del mondo, prevedono catastrofi. Tutte le loro previsioni vengono smentite clamorosamente. Londra non s’inabissa nel Mare del Nord. L’economia Usa sotto la presidenza Trump accelera la sua crescita e si avvicina al pieno impiego.
La terza morte della globalizzazione viene preannunciata con la pandemia. Ancora una volta le previsioni della maggioranza degli economisti falliscono miseramente. La recessione da pandemia si rivela breve, i suoi effetti sull’occupazione sono pesantissimi ma corti perché vengono curati con iniezioni di spesa pubblica e liquidità monetaria senza precedenti. L’America fra Trump e Biden ci mette 5.000 miliardi di dollari di aiuti a famiglie e imprese; più gli 8.900 miliardi di moneta generata dalla Banca centrale. Certo la pandemia crea strozzature, penurie, blocchi nella catena produttiva e logistica di molte merci. Stavolta sì, l’inflazione s’incendia (l’ultimo dato Usa sfiora l’8% di aumenti dei prezzi). Però malgrado i sospetti sulla Cina, e tutte le sacrosante ragioni che avremmo per riportare vicino a casa nostra le produzioni di tanti beni essenziali, non avviene un vero cambio sistemico. Il 2021 si conclude con un record storico assoluto nell’attivo commerciale cinese verso il resto del mondo. La globalizzazione ha il fiato grosso – come si vede da certe scarsità settoriali – ma gli intasamenti dei porti stanno a ricordare che le merci viaggiano sempre, e quelle made in China restano indispensabili.
La quarta profezia dell’Apocalisse è di questi giorni. Guerra «novecentesca» di Putin contro l’Ucraina. Sanzioni economiche pesantissime. Russia espulsa dal sistema dei pagamenti Swift, sia pure con l’esclusione del gas. Rublo che crolla, default sovrano imminente per Mosca. Per quanto la Russia abbia una piccola economia, con un Pil inferiore all’italiano, tuttavia il suo ruolo è sostanziale su alcuni mercati: energia fossile, cereali, metalli per usi industriali.
Se tante volte nel passato abbiamo creduto di sfiorare un’Apocalisse che non c’è stata, proviamo a immaginare cosa potrebbe riprodurre un salvataggio in extremis della globalizzazione. La Cina è l’indiziato numero uno. Ha un formidabile interesse a tenere in piedi un sistema di scambi internazionali da cui ha ricavato vantaggi enormi per trent’anni. Ha un potere d’influenza su Putin. Ha conservato le sue porte aperte con l’America e l’Europa nonostante il clima di contrapposizione tra blocchi. La Cina in questi giorni sembra scommettere che l’Apocalisse non ci sarà, almeno se guardiamo a un suo comportamento fattuale: investe. Fa quello che fecero Goldman Sachs e compagnia nei momenti più bui del 2008: compra attivi svalutati. Approfitta delle difficoltà di Putin per comprare aziende russe in particolare nei settori dell’energia, a quanto pare. Per scommettere così bisogna avere almeno un briciolo di fiducia nel futuro.
Ho scritto dopo una settimana trascorsa negli Emirati. Tra Dubai e Abu Dhabi un’altra idea di Oriente avanza lungo un asse che unisce il sud-est asiatico (con nazioni musulmane come l’Indonesia e la Malesia), l’Oceano Indiano, il Golfo arabico-persico, fino a lambire le coste del Corno d’Africa e del Mediterraneo meridionale. Entro un raggio di cinque ore di volo dal Golfo vivono tre miliardi di persone con un età media di 26 anni, e una natalità ancora dinamica. Economia e demografia riportano in primo piano quell’idea di Oriente che per noi europei fu identificato molto a lungo con l’Islam. Lungo quelle coste i mercanti cinesi trafficavano già ben oltre duemila anni fa. La sensazione che riporto da questo viaggio è che nuove forme di globalizzazione, con altri attori protagonisti, diversi sistemi di regole, prendono forma a nostra insaputa. È probabile che le nostre imprese multinazionali debbano restringere i loro orizzonti, entrare in una logica di blocchi contrapposti, accettare criteri di sicurezza geopolitica che impongono di arretrare, cancellare dalle proprie mappe geografiche la Russia e qualche suo alleato.
Se mettiamo in fila i quattro shock in quattordici anni, possiamo dichiarare defunta l’ideologia del globalismo, quella dell’Uomo di Davos. Però ricordiamoci che le Vie della seta, già capaci di collegare l’Estremo oriente al Mediterraneo tremila anni fa, sopravvissero a shock come la caduta dell’Impero romano o l’avvento dell’Islam. Sopravvissero adattandosi: l’Europa del basso Medioevo precipitò per secoli in una povertà che deprimeva gli scambi; ma altrove fiorivano un Impero romano d’Oriente e altre realtà geopolitiche. Scambi commerciali, flussi finanziari, relazioni politiche, sono come fiumi carsici: capaci di scomparire a lungo nel sottosuolo per poi sgorgare altrove, dove non te l’aspetti.