«È in prigione che si capisce l’Egitto»

A colloquio con Mahienour El Massry: l’avvocatessa lotta per i diritti civili e umani e ha subito numerosi arresti per la sua attività
/ 19.03.2018
di Costanza Spocci

«La prigione è il microcosmo della società», scriveva nella sua prima lettera dal carcere Mahienour El Massry, «I prigionieri discutono di ciò che succede nel paese, puoi trovarci l’intero spettro politico qui». Era il maggio del 2014 quando El Massry, avvocatessa di Alessandria e icona della lotta per i diritti umani e civili in Egitto, ritrovava lo specchio del paese nella cella 8, blocco 1, del carcere femminile di Damanhour. Quattro anni e tre condanne dopo, Mahienour che oggi ha 32 anni, è ancora convinta che la prigione sia un punto di osservazione privilegiato per capire cosa sta succedendo nell’Egitto di Al Sisi. L’ultima incarcerazione come prigioniera politica l’ha scontata due mesi fa nella sezione femminile della prigione di Qanater, non lontano dal Cairo, da dove è stata rilasciata lo scorso 16 gennaio dopo aver vinto in appello.

L’accusa era di aver partecipato a una manifestazione contro la decisione del governo di cedere all’Arabia Saudita il controllo sulle isole Tiran e Sanafir nel Mar Rosso. Dal novembre 2013 in Egitto vige una legge-anti proteste che prevede una pena dai 2 ai 5 anni di carcere per chiunque manifesti contro il governo. Anche per questo El Massry non perde tempo, e il giorno successivo alla sua scarcerazione ha ricominciato subito a lavorare. «Abbiamo più di 40.000 prigionieri politici in Egitto, alcuni di loro arrestati per la legge anti-proteste, altri con accusa di terrorismo, per cui rischiano la pena capitale», dice Al Massry, «Stiamo facendo fronte a esecuzioni sistematiche, ormai abbiamo prigionieri politici impiccati ogni settimana».

I processi per terrorismo vengono seguiti da corti speciali, istituite dalla legge marziale e gestite direttamente dallo State Security (intelligence). Non è previsto diritto all’appello per il reato di terrorismo: un capo d’imputazione che l’apparato estende non solo a jihadisti, ma anche Fratelli Musulmani, oppositori liberali o persone innocenti con le conoscenze «sbagliate». «A Qanater ero confinata con prigioniere politiche, alcune erano islamiste», racconta El Massry. Su molte di loro pendevano accuse fabbricate solo perché facevano parte dei Fratelli, o solo perché i loro mariti o familiari ne facevano parte. «Ho conosciuto donne che sono state condannate a morte e ho percepito quanto questo sia un’esperienza inumana» racconta.

«Il giorno dell’esecuzione le guardie vengono sempre all’alba, molto presto, aprono le celle per prendere la donna di forza, la portano nella sala delle esecuzioni per impiccarla. Noi sentivamo le urla dalle nostre celle». Oltre a condividere gli ultimi momenti di donne condannate nel braccio della morte, El Massry è stata imprigionata anche con detenute comuni e questo, dice, «mi ha permesso di vedere l’ingiustizia sistematica esercitata sulle persone ordinarie. Parlo di donne in prigione da dieci anni perché non potevano saldare i loro debiti». Nella prigione di Damanhour «eravamo 52 donne in una cella di 6 metri per 4», racconta: «per 18 ore al giorno ognuna di noi era costretta a vivere in uno spazio vitale di 40 cm, non avevamo nemmeno la possibilità e lo spazio di allungarci e facevamo i turni per dormire in un metro e mezzo di spazio. Molto spesso ci toglievano l’acqua per ore nelle celle, non c’era aria fresca, perché la cella non aveva finestre e non potevamo vedere il sole». 

El Massry racconta che per cinque ore al giorno potevano camminare in una stanza, non all’aria aperta, ma almeno potevano intravedere il cielo attraverso il filo spinato. «La nostra condizione era orribile; l’ospedale nella prigione di Damanhour non aveva dottori e medicine a sufficienza, e le guardie non permettevano alle detenute di correre in ospedale se c’era un’emergenza quando le porte delle celle erano chiuse. Nel nostro blocco di solito lo erano verso le 14.30. Quindi, se per esempio, una di noi aveva un’emergenza la notte, battevamo sulla porta per ore per far venire a prendere la persona che stava male». Nessuno però rispondeva. «Una donna ha partorito in cella perché noi abbiamo continuato a battere sulla porta e nessuno ha aperto. Ci sono persone che sono morte perché era troppo tardi quando aprivano le porte». Al Massry racconta anche quello che è successo ad alcune sue compagne di cella, prigioniere politiche come lei: «La dott.ssa Basmaa è stata arrestata e torturata perché era andata alla stazione di polizia a chiedere notizie di suo marito; c’erano anche due sorelle, Sara e Rana: Sara, era stata condannata a morte ma poi le hanno ridotto la pena all’ergastolo; Rana ha preso tre anni. Entrambe sono state torturate dallo State Security con i cavi elettrici e sono state minacciate ripetutamente di stupro, solo per obbligarle a confessare crimini che non avevano commesso». 

La prigione è un posto orribile, ma lo è ancora di più per le classi inferiori, per chi non ha soldi a sufficienza per comprarsi da mangiare anche dentro la prigione. «Giustizia sociale»: Mahienrour El Massry ripete questo concetto come un mantra. Ha supportato la candidatura di Khaled Ali fino al momento del suo ritiro: «Sappiamo che non saranno elezioni libere, ma proveremo a far passare la nostra narrativa alla gente comune». Come? «Con un’alleanza di movimenti che hanno partecipato alla rivoluzione del 25 gennaio 2011: vogliamo per creare un programma, mostrare che c’è un’alternativa, e che stiamo provando a creare una piattaforma politica».