La partita del Brexit non riguarda tanto la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea quanto l’esistenza stessa di quell’antica monarchia imperiale. Il referendum di tre anni fa mirava infatti, nelle intenzioni dei suoi promotori – inglesi conservatori più o meno radicali – a impedire che la Scozia e a seguire forse anche l’Irlanda del Nord diventassero indipendenti. Giacché l’Unione Europea era da loro considerata fattore di disgregazione in quel che resta del grandioso impero britannico, attraendone le frange celtiche con la sua ideologia e prassi antinazionale, post-storica, inclinata a delegittimare lo Stato nazionale come relitto del passato. Il referendum scozzese del 2014, perso di poco dai secessionisti, era suonato come un allarme alle orecchie di quegli inglesi che temevano e continuano a temere la dissoluzione dello Stato.
«Ora abbiamo bisogno di un vero Brexit e di un’agenda per riunire il paese». In queste parole di Boris Johnson, massimo candidato alla successione di Theresa May, pronunciate dopo il disastro tory alle elezioni europee del 26 maggio, sta il nesso fra congedo dall’Unione Europea e rinsaldamento del Regno Unito, minacciato dalle sirene indipendentiste. Nel frattempo l’atmosfera britannica si sta avvelenando ogni giorno di più. Non è più chiaro dove risieda il potere. Il paese non è di fatto governato se non in amministrazione provvisoria.
Del binomio Corona-Parlamento, storico asse intorno al quale ha sempre ruotato la sovranità britannica, resta poco, dopo che un referendum consultivo ne ha messo in questione il potere. Qualcuno a Londra comincia a parlare di costituzione scritta. Quando le garanzie offerte dalla tradizione, secondo la common law e la prassi britannica, non paiono più determinanti, non si può pensare di reggere il Regno Unito sulla base di plebisciti, senza che un potere responsabile ne traduca le scelte in atti istituzionali.
Al di là delle intenzioni dei brexiteers, la loro strategia è in crisi. In Scozia si prepara il secondo referendum sull’indipendenza, che si vorrebbe tenere entro l’anno prossimo. In caso di fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea, o anche solo di prolungamento dello stallo, i separatisti avrebbero qualche concreta chance di cogliere la vittoria loro sfuggita di misura nel 2014. Sempre che Westminster non si opponga e vieti il plebiscito. Rischiando a quel punto di scatenare un caos ancora maggiore dell’attuale.
C’è poi il rischio della ripresa della guerra civile nordirlandese, se nel Brexit non vi fosse il backstop, ovvero una frontiera morbida fra le due Irlande, l’indipendente e la britannica. In caso di frontiera dura, quel confine fra un Regno Unito uscito dall’Unione Europea e una Repubblica d’Irlanda tuttora interna alla famiglia comunitaria diventerebbe rovente. E tornerebbe d’attualità l’ipotesi della riunificazione della nazione irlandese, specie se nell’Ulster i cattolici dovessero diventare maggioranza.
I fautori del Brexit hanno condito la loro propaganda sulla necessità di mollare gli ormeggi che tuttora legano Londra al continente con la retorica della Global Britain. L’altro modo di chiamarsi impero. Non siamo certo più ai tempi della regina Vittoria, ma le mentalità imperiali durano di norma più degli imperi in cui si formano. Per Johnson e i suoi affini il futuro del Regno Unito finalmente emancipato dall’Ue e rinsaldato nelle sue giuntura domestiche è nel vasto mondo, al fianco degli Stati Uniti, in un’Anglosfera intesa come nucleo dei paesi storicamente bianco-anglosassoni-protestanti. Costellazione da tempo prefigurata nella struttura dei Five Eyes, la cooperazione spionistica fra Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada. Insieme, si formerà una rete di accordi commerciali bilaterali e regionali, senza lasciarsi condizionare dall’Ue. Per competere con la Cina.
Il sogno della Global Britain pare destinato a restar tale. Soprattutto, il ruolo di Londra nell’Anglosfera non potrebbe essere che brillantemente secondario rispetto a quello di Washington. Né gli ex domini oggi aggruppati nel Commonwealth, organizzazione più celebrativa che sostanziale, sono entusiasti di lasciarsi orientare da Londra.
Il futuro primo ministro britannico ha tempo fino al 31 ottobre per chiudere il negoziato con Bruxelles o per andarsene sbattendo la porta. Questo secondo esito provocherebbe conseguenze imprevedibili. Eppure molti brexiteers, Johnson incluso, sono disposti a rischiarlo pur di non prolungare l’agonia di un negoziato infinito che potrebbe sfociare nella partizione del Regno Unito.