Era solo il 29 marzo scorso quando il presidente Trump annunciava che gli Stati Uniti avrebbero ritirato le proprie truppe stanziate nella regione nord-orientale della Siria. «Il nostro obiettivo principale – spiegava – era annientare l’Isis e l’obiettivo è stato in gran parte raggiunto». I primi a sentirsi traditi erano stati i curdi di Manbij minacciati dall’avanzata dell’esercito turco che si era già impadronito della città di Afrin con l’aiuto dei «ribelli» del Libero esercito di Siria. L’unica loro speranza per fermare l’avanzata dell’armada di Erdoğan erano proprio i 2000 effettivi delle truppe speciali americane con l’aiuto dei quali avevano bloccato e sloggiato i jihadisti del Daesh. Era dunque questo il ringraziamento per aver aiutato l’Occidente e gli Usa in particolare ad annientare la minaccia terroristica islamista?
Chi invece gongolava per la decisione annunciata da Trump era la troika composta da Russia, Iran e Turchia in procinto di riunirsi il 4 aprile ad Ankara per decidere le sorti della Siria mentre l’aviazione del regime di Bashar al-Assad, coadiuvata tra le nubi dai jet russi, finiva di liquidare la questione della Ghouta orientale a suon di bombardamenti e colloqui segreti condotti da Mosca con altri «ribelli», quelli del Jaysh al-Islam, Esercito dell’Islam, ormai asserragliati nella sola cittadina di Douma. Tra stop and go angoscianti, la popolazione civile dell’area era stata in parte evacuata ma il problema rimanevano i ribelli medesimi che volevano precise garanzie prima di essere trasferiti armi e bagagli nella provincia nord-occidentale di Idlib, ai confini con la Turchia, ormai diventata una specie di «discarica» ufficiale degli oppositori armati e irriducibili del regime. L’Esercito dell’Islam è una delle coalizioni più numerose di salafiti sunniti che dal 2011 hanno ricevuto armi e finanziamenti soprattutto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati arabi uniti.
Nell’ottica dei vincitori delle molteplici guerre che si stanno combattendo in Siria, alias Bashar al-Assad, Putin, Erdoğan e il presidente iraniano Rouhani, tutto sembrava dunque andare per il meglio quando il 7 aprile diverse associazioni locali e internazionali hanno denunciato tre ondate di bombardamenti governativi a Douma nel corso delle quali sarebbero state usate armi chimiche. Stando agli operatori umanitari sul terreno, i morti sarebbero stati 42 e 500 gli intossicati dai gas ricoverati negli ospedali con evidenti sintomi di soffocamento. Sui social hanno poi cominciato ad apparire scene di bambini con difficoltà respiratorie attaccati a mascherine dell’ossigeno o annaffiati d’acqua come gli adulti nella speranza di eliminare gli effetti dei veleni piovuti dal cielo. Da quel momento è partita un’escalation inarrestabile di accuse e controaccuse, nonché di preparativi militari che hanno portato al braccio di ferro diretto tra Stati Uniti e Russia. Trump non solo ha dato dell’«animale protetto da Iran e Russia» a Bashar al-Assad, ma ha mobilitato marina e aviazione Usa di stanza nel Mediterraneo ordinando loro di far rotta verso la Siria. Dal canto suo Mosca ha sempre negato che a Douma l’aviazione siriana abbia sganciato armi chimiche parlando di un complotto orchestrato dai «ribelli» ai danni del governo di Damasco. E l’11 aprile, mentre il presidente americano twittava direttamente alla Russia di fare attenzione perché i suoi missili «belli, nuovi e intelligenti» stavano arrivando sulla Siria, dal Libano il locale ambasciatore russo gli rispondeva che Mosca era pronta ad abbatterli uno dopo l’altro e anche a distruggere le loro basi di lancio.
In un tragico crescendo giovedì 12 aprile prima la Francia poi gli Stati Uniti hanno annunciato di avere le prove che a Douma il regime di Bashar al-Assad ha usato i gas, non solo cloro ma anche gas nervino, sbugiardando così Damasco e il suo padrino russo che peraltro aveva già inviato la sua polizia militare nella stessa cittadina per tenere la situazione sotto controllo o forse per far sparire prove imbarazzanti. E mentre l’esercito siriano entrava trionfalmente a Douma da cui uscivano gli ultimi 1500 ribelli dell’Esercito dell’Islam, ricompariva in tv anche Bashar al-Assad, dato per scomparso il giorno prima. Era invece vivo e vegeto e riceveva nella propria capitale un altro fido sodale, Ali Akbar Velayati consigliere della Guida suprema Ali Khamenei, venuto a dirgli che l’Iran sarà sempre al fianco della Siria contro le aggressioni degli Stati Uniti o del «nemico sionista», leggi Israele, che verrà presto colpito per aver ucciso 7 pasdaran nel blitz del 9 aprile contro la base aerea siriana T4 in provincia di Homs da cui lo scorso febbraio era partito il drone iraniano poi abbattuto dalla contraerea israeliana. A questo proposito l’11 aprile successivo, Putin si è sentito in dovere di «invitare» il premier israeliano Benjamin Netanyahu a non intervenire più in Siria per non aggravare una situazione già al calor bianco.
Anche questo è un sintomo della paura di Bashar& soci che la situazione sul terreno finisca fuori controllo più di quanto già non lo sia. Bashar infatti si è affrettato ad accettare l’arrivo nella Ghouta orientale di osservatori dell’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons per investigare sull’accaduto. I tecnici dell’Opcw saranno «protetti» o controllati sul terreno, scegliete voi, da militari russi. Russi che – dopo aver ripristinato le comunicazioni tra Mosca e Washington – hanno espressamente chiesto agli Stati Uniti di far loro sapere in anticipo le coordinate degli obiettivi che intendono colpire in Siria, per poterli evacuare. Nel frattempo hanno fatto prendere il largo alle loro 11 navi ancorate nel porto siriano di Tartus perché non vengano distrutte in un sol colpo in stile Pearl Harbour dai Tomahawk americani.
Ma qualche timore ce l’ha pure il baldanzoso Trump che il 12 aprile se ne è stato quasi tutto il giorno in riunione coi suoi generali che ci vanno coi piedi di piombo prima di avventurarsi in un’altra guerra mediorientale per di più con la Russia come nemico. Come ha affermato il segretario alla Difesa Usa James Mattis, è meglio «evitare ogni escalation», le stesse parole usate da Putin. Tutti insomma temono la fatidica escalation ma intanto preparano un’altra guerra. Ma quale guerra? Quanto a fondo bisogna colpire la Siria di Assad per non lasciare impunito l’uso di armi chimiche? Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, consorziati nell’impresa, lo decideranno presto assieme mentre la Germania della Merkel se ne è tirata fuori. Quanto all’Italia garantirà appoggio logistico agli alleati (le basi di Aviano e Sigonella) senza spingersi oltre. As usual.