È guerra fra Israele e Gaza

Medio Oriente – La 1. tappa della Marcia del ritorno, indetta dai palestinesi per rivendicare il diritto dei discendenti dei rifugiati a rientrare nelle case di famiglia perdute dal 1948 ad oggi, si chiude con un bilancio di sangue
/ 09.04.2018
di Marcella Emiliani

Non finirà presto e non finirà bene. I palestinesi l’hanno chiamata la Grande Marcia del Ritorno, ma rischia di trasformarsi nell’ennesimo bagno di sangue a loro danno. Se ne è già avuta una tragica anteprima il 30 marzo scorso, il «venerdì nero» quando l’esercito israeliano ha lasciato sul terreno 16 morti e più di 1400 feriti sparando proiettili di gomma e munizioni vere. Da allora le vittime sono salite a 18 e il loro numero è destinato ad aumentare. D’altronde le autorità israeliane avevano avvisato le organizzazioni palestinesi di tenere i manifestanti lontani dai confini tra Israele e i Territori occupati e di non consentire loro di superare i 300 metri fatidici di profondità che portano ai reticolati o ai fossati di divisione. 

Parole al vento. Anche se hanno usato solo bottiglie molotov, sassi e fionde di biblica memoria, i giovani palestinesi hanno comunque preso di mira i militari di Israele in cinque punti diversi del confine tra la Striscia di Gaza e Israele e le Idf (le Forze di difesa israeliane) hanno risposto aprendo il fuoco, come promesso . Gli scambi più violenti si sono verificati ad est di Gaza City, di Bei Hanoun, dei campi profughi di Bureij e Khan Younis e di Rafah, il punto di transito verso l’Egitto. Sebbene con intensità minore scontri sono avvenuti anche in Cisgiordania, a Ramallah e a Hebron, e sia a Gaza che in Cisgiordania l’esercito israeliano ha fatto uso per la prima volta di droni lancia-lacrimogeni che hanno fatto letteralmente piovere sui manifestanti liquidi irritanti. L’aviazione vera e propria, invece, è scesa in campo, sempre il 30 marzo, nella Striscia di Gaza colpendo tre «postazioni armate» di Hamas mentre l’esercito ha ucciso gli unici due palestinesi che, ancora a Gaza, hanno sparato verso i militari; militari che, da allora, non hanno ancora restituito i corpi dei defunti ai famigliari.

Di fronte ad un clima tanto conflittuale va notato che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen non ha fatto commenti e si è limitato a proclamare il 31 marzo giorno di lutto nazionale. Dal canto loro l’Onu e l’Unione europea hanno provato a chiedere la creazione di una commissione d’inchiesta indipendente che facesse luce sull’accaduto, ma il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha rifiutato in maniera piuttosto seccata, chiarendo che la Striscia di Gaza, epicentro delle manifestazioni di protesta, dal 2005 è praticamente indipendente essendo stata restituita unilateralmente da Israele ai palestinesi e quanto vi si sta organizzando si prefigura come un tentativo di invasione di Israele da parte di una folla ostile di 30’000 manifestanti. Non bastasse, Lieberman ha anche sottolineato che Hamas sta strumentalizzando la popolazione della Striscia mandandola coscientemente al macello.

Chi ha torto, chi ha ragione? Arrivati a questo punto, la domanda è solo retorica. Come ormai sappiamo da 70 anni a questa parte, tra israeliani e palestinesi si combatte una guerra totalmente asimmetrica che le armi fino a oggi non sono riuscite a risolvere. Servirebbe la politica, quella di alto profilo, che purtroppo attualmente scarseggia a livello planetario e soprattutto in Medio Oriente. Riesaminiamo allora le ragioni degli uni e degli altri, partendo da un interrogativo meno ontologico, ovvero: perché la Grande Marcia del Ritorno è stata organizzata proprio ora e quali fini si prefigge di raggiungere?

La Higher National Commission for the March of Return and Breaking the Siege, che ha concepito e orchestrato la Marcia del Ritorno, è composta da Hamas, Jihad islamico, Fronte popolare di liberazione della Palestina, forti soprattutto nella Striscia di Gaza da cui fanno regolarmente partire razzi contro Israele, ma anche da al-Fatah, principale formazione politica dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania nonché partito del presidente dell’Anp, Abu Mazen. A queste vanno aggiunte rappresentanze degli arabi israeliani (ovvero dei palestinesi con cittadinanza israeliana) e organizzazioni palestinesi della diaspora. Scopo della Marcia infatti sarebbe di estendere la protesta anche in Libano, Siria e Giordania, cioè nei paesi arabi che ospitano i campi profughi più affollati.

Il culmine delle manifestazioni dovrebbe essere raggiunto il 15 maggio, settantesimo anniversario della Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele nonché della nakba ovvero la catastrofe. I palestinesi chiamano così la sconfitta subìta dagli Stati arabi e dai palestinesi stessi nella guerra del 1948-’49 che fece seguito immediato alla dichiarazione di indipendenza di Israele nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1948 quando gli eserciti arabi invasero quella che allora come oggi definiscono «l’entità sionista». Dal 1948 molti dei palestinesi fuggiti di fronte al conflitto non hanno più potuto far ritorno alle proprie case e – di guerra in guerra – a ben poco è contata la risoluzione n. 194 dell’Onu il cui articolo 11, già nel 1948, sanciva il diritto al ritorno in patria dei profughi palestinesi. La Grande Marcia del Ritorno, dunque, fa appello a loro e ai loro discendenti perché continuino ad ammassarsi sui confini tra Israele, Gaza e la Cisgiordania fino al 15 maggio, in specie ogni venerdì, per far sì che «il diritto al ritorno non rimanga solo uno slogan» come ha affermato il lider maximo di Hamas Ismail Haniyeh in prima fila tra i manifestanti.

Il tutto dovrebbe svolgersi pacificamente ma, come ha fatto notare il ministro della Difesa israeliano Lieberman all’indomani del 30 marzo, delle 16 vittime palestinesi del venerdì nero almeno 10 erano membri del braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedine al-Qassam e del Jihad islamico, di cui tutto si può dire meno che siano «pacifici». Entrambe le formazioni, infatti, non solo non hanno mai riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, come ha invece fatto al-Fatah, ma nel loro Statuto – nero su bianco – sostengono ancora che lo Stato sionista vada distrutto. Torniamo a chiederci, allora, perché la Grande Marcia del Ritorno è stata organizzata proprio ora e quali fini si prefigge veramente di raggiungere?

È improbabile, come afferma Lieberman, che i palestinesi vogliano davvero e tantomeno riescano ad «invadere» Israele, «per riprendersi ogni centimetro della loro terra» come sostiene invece Haniyeh. È più verosimile, invece, che stiano disperatamente tentando di uscire dal cul-de-sac in cui sono finiti dal dicembre 2017 cioè da quando il presidente Trump ha annunciato ufficialmente di voler trasferire l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Cosa che peraltro avverrà proprio il 15 maggio prossimo quando Israele festeggerà il settantesimo anniversario della propria Dichiarazione di indipendenza. 

Nell’ottica palestinese – sia di al-Fatah che di Hamas – il trasferimento dell’ambasciata significa sostanzialmente due cose ugualmente gravi: innanzitutto che Gerusalemme non entrerà mai più in un eventuale pacchetto negoziale di un altrettanto eventuale piano di pace che preveda ancora una soluzione al conflitto israelo-palestinese basato su due Stati (uno israeliano e uno palestinese). In secondo luogo, vista l’intesa fra Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, gli Stati Uniti non possono più considerarsi degli honest brokers, dei mediatori onesti, tra israeliani e palestinesi. E se non sono gli Stati Uniti, chi li potrà mai sostituire nella difficile impresa? In fondo i palestinesi chiedono alla comunità internazionale o a chi per essa di farsi carico della causa palestinese rimasta «orfana».

Dal venerdì nero, cioè dal 30 marzo, a livello regionale e internazionale quello che ha colpito di più invece è stato il silenzio che ha accompagnato gli avvenimenti della Striscia di Gaza. L’Onu e l’Unione europea, come abbiamo visto sono stati rattamente zittiti, e l’unico capo di Stato mediorientale che abbia alzato la voce contro Israele tacciandolo di essere uno «Stato terrorista» è stato l’immarcescibile Erdoğan, reduce dall’invasione della Siria e dall’occupazione di Afrin a danno dei curdi.

Più interessante invece la presa di posizione dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman che in viaggio negli Stati Uniti ha rilasciato il 1. maggio un’intervista a «The Atlantic» in cui ha riconosciuto apertamente il diritto di Israele ad avere una propria terra. Se non è stato un aperto riconoscimento del diritto di Israele ad esistere, ci è andato molto vicino. È toccato poi a suo padre, re Salman, correre a ricordare il giorno dopo che anche i palestinesi hanno i loro diritti, primo fra i quali quello ad uno Stato. In altre parole, sono lontani i tempi in cui l’Arabia Saudita, all’indomani della guerra dello Yom Kippur del 1973, puniva l’Occidente per aver aiutato Israele contro l’Egitto e la Siria con un bell’embargo petrolifero. Oggi la solidarietà dei «fratelli arabi» coi palestinesi si è alquanto affievolita e tra gli stessi palestinesi non corre buon sangue.

La Grande Marcia del Ritorno, infatti, potrebbe essere vista anche come l’ultimo tentativo di rinsaldare l’unione tra al-Fatah e Hamas che ufficialmente è stata celebrata il 12 ottobre dell’anno scorso al Cairo, ma in realtà non si è mai realizzata, a tutto danno della causa palestinese stessa.