È già il secolo di «Cindia»?

Economia – Chi riempirà il vuoto che si sta creando in seguito al declino della potenza americana? Di sicuro siamo solo all’inizio di un grande gioco che dovrà ridefinire gli equilibri del commercio mondiale
/ 10.04.2017
di Federico Rampini

Una settimana prima di ricevere il presidente cinese Xi Jinping in Florida, Donald Trump firmava due ordini esecutivi che potevano segnare un’apertura delle ostilità negli scambi internazionali. Stiamo assistendo alla fine della globalizzazione «americana» e forse come conseguenza si prepara l’inizio di una globalizzazione «a egemonia cinese»? L’obiettivo dichiarato dei due decreti Trump è «combattere gli abusi» dei partner stranieri che contribuiscono a un deficit annuo di 500 miliardi di dollari (sarebbero addirittura 750 misurando solo gli scambi di merci: gli Usa riequilibrano in parte la bilancia commerciale con l’export di servizi). Il primo ordine esecutivo lancia «un’indagine ad ampio raggio sulle cause del deficit»: entro 90 giorni dovrà concludersi con delle raccomandazioni precise, dai rimedi contro le frodi alle rappresaglie contro le svalutazioni altrui.

Il secondo ordine esecutivo richiede immediatamente «l’applicazione più rigorosa delle leggi anti-dumping», cioè le penalità previste contro quei produttori esteri che svendono sotto-costo. Dietro questa direttiva c’è un’insofferenza rivolta in parte verso quell’arbitro del commercio globale che è il Wto (World Trade Organization, con sede a Ginevra) ma in parte anche verso la stessa burocrazia americana. L’Amministrazione Trump sottolinea che dal 2001 ad oggi ben 2,8 miliardi di multe già inflitte per anti-dumping non sono state riscosse. I due decreti presidenziali non contengono un elenco dei paesi reprobi, non c’è una lista delle nazioni da colpire. Però se l’obiettivo è riassorbire l’enorme deficit commerciale, la lista è automatica: Cina, Germania, Messico, Giappone, Corea del Sud vantano i maggiori attivi con gli Stati Uniti e quindi hanno più da perdere. 

È la Repubblica Popolare ad accumulare il più vasto attivo commerciale con gli Stati Uniti: 310 miliardi da sola, i due terzi del totale. Trump vuole istruire un dossier di accuse sufficienti a negare alla Cina l’ambìto status di «economia di mercato» in seno al Wto. Senza quello status – che Pechino voleva ottenere già a fine 2016 – è più facile colpire legalmente con dazi i prodotti cinesi. Altro obiettivo di Trump: dimostrare che il governo cinese manipola la valuta nazionale – renminbi o yuan – in modo da tenerla artificialmente debole aiutando così le sue aziende. Poi c’è una problematica tutta interna alla Cina, che esaspera gli imprenditori Usa: il 55% dei settori industriali cinesi pratica delle «discriminazioni contro gli investitori stranieri», per esempio con norme che li costringono a entrare in joint-venture con partner locali o a trasferire forzosamente il loro know how tecnologico. Di fatto il mercato cinese è molto meno aperto di quello americano.

Ad essere accusata di dumping non è solo l’industria cinese, in settori come l’acciaio e l’alluminio. La svendita sotto-costo, secondo il Dipartimento del Commercio Usa, la praticano anche altri paesi asiatici nonché i maggiori produttori europei. Nell’elenco delle nazioni contro cui Washington ha già presentato denunce e avviato cause legali anti-dumping, prima ancora dell’arrivo di Trump figuravano Italia, Germania, Francia, Belgio, Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Su questi produttori Washington vuole applicare super-dazi punitivi che vanno da un minimo del 4% a un massimo del 150%. «La siderurgia americana – dice il segretario al Commercio Wilbur Ross – è sotto attacco da parte di stranieri che ricevono sussidi. Vogliamo solo l’applicazione rigorosa delle leggi». Paradossalmente, è più facile multare per dumping la Cina: finché non è riconosciuta come «economia di mercato», gli americani possono calcolare come costi di produzione «normali» quelli della propria industria.

Chi s’illudeva che Trump avrebbe concentrato la sua offensiva protezionista su Cina e Messico, deve ricredersi. Perfino l’accusa di svalutazione competitiva viene estesa agli europei. Peter Navarro, principale consigliere di Trump per il commercio estero, denuncia «l’euro sottovalutato» come una distorsione del commercio fra le due sponde dell’Atlantico. Vengono riscoperti contenziosi antichi che l’Amministrazione Obama cercava di risolvere coi negoziati e con il progetto di nuovo trattato Ttip, mentre Trump ha un approccio più conflittuale. I super-dazi del 100% su Vespa e San Pellegrino – nulla a che vedere coi due ordini esecutivi firmati ieri – sono allo studio come rappresaglia per l’embargo europeo sulla carne agli ormoni. Perfino il protezionismo contro la Cina può danneggiare l’Italia: nel riesame delle fonti di deficit estero che Trump ha commissionato rientra anche una caccia alle produzioni con etichetta Ue ma assemblate in Cina: spesso accade con il made in Italy nell’abbigliamento e calzaturiero.

«Altre nazioni – dice Trump – impongono alti dazi sui nostri prodotti, noi quasi niente sui loro». In parte è vero. È una delle ragioni per cui la guerra commerciale non sarà simmetrica: l’America può infliggere agli altri i danni più grossi perché il mercato Usa è realmente il più aperto. Lo dicono i dati del Wto sui dazi prelevati all’import: quelli cinesi sono mediamente del 10%, quelli europei del 5%, gli americani solo il 3,5%. La sperequazione peggiora se ai dazi doganali si aggiunge l’impatto della fiscalità complessiva. L’Unione europea e altre nazioni hanno un’Iva che di fatto agevola l’export. Se si calcolano Iva e altre imposte, la Cina tassa i prodotti stranieri mediamente al 27%, l’Unione europea al 25%, gli Stati Uniti appena il 9%. Non a caso su un mercato come quello dell’auto la penetrazione di vetture dall’estero è del 26% in America contro il 4% in Cina. Trump vuole introdurre una specie di Iva mirata proprio sulle importazioni, la «border tax» o tassa al confine.

Siamo a un passaggio epocale, la staffetta da un impero a un altro? Le politiche di Trump accelerano il declino degli Stati Uniti, precipitano la fine del «lungo secolo americano»? È evidente l’analogia con un’altra svolta storica che fu gravida di conseguenze: quando il baricentro degli scambi mercantili e di tutta l’attività economica si trasferì dal Mediterraneo all’Atlantico, segnando il tramonto di intere nazioni e l’ascesa di altre. All’interno della stessa economia genovese alcuni capirono come bisognava riconvertirsi, altri no. Le storie si divaricarono. Anche quelle individuali o familiari.

L’Impero di Cindia è pronto a sostituire il Secolo Americano? Fui io a lanciare in Italia il neologismo Cindia più di dieci anni fa, quando vivevo a Pechino; da lì osservavo e raccontavo l’ascesa di ambedue i giganti asiatici, pur diversissimi tra loro, Cina e India. Oggi la questione si pone in termini nuovi e probabilmente più urgenti: rispetto a dieci anni fa abbiamo avuto la grande crisi del 2008 (che ha lambito anche Cindia, ma non con gli effetti drammatici che ha avuto sull’Occidente); l’ascesa dei nazional-populismi non solo in casa nostra ma anche a Pechino e New Delhi (Xi Jinping e Narendra Modi); infine Trump e la vittoria in America del primo presidente apertamente protezionista dell’era moderna. Il declino relativo della potenza leader, un fenomeno già in atto prima di Trump, è destinato ad accelerare? La storia non ama i vuoti... Chi riempirà il deficit di egemonia? Se esiste un progetto imperiale a Oriente, che cosa significa per noi? Tra gli sviluppi più recenti abbiamo avuto la cancellazione di fatto degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico da parte della nuova Amministrazione americana. Poi ancora l’inizio di una revisione della politica commerciale, al termine della quale il mercato Usa potrebbe diventare meno aperto ai prodotti stranieri.

Tutto questo apre nuovi spazi alla Cina, senza dubbio. Xi è stato veloce ad approfittarne. Già due mesi fa parlando al World Economic Forum di Davos il leader cinese si era appropriato della bandiera della globalizzazione. Anche sugli accordi di Parigi per la riduzione delle emissioni carboniche, Pechino si dice intenzionata ad andare avanti malgrado la defezione americana. Non bisogna concluderne frettolosamente che stiamo entrando a grandi passi in un «Secolo Cinese». La Cina, per adesso, sta difendendo le regole del gioco di un sistema che non ha costruito lei. È ancora una globalizzazione nata negli Stati Uniti, pensata dagli americani, con una cabina di regìa articolata fra Washington, Wall Street, e la Silicon Valley. La Cina non ha ancora elaborato un progetto alternativo da proporre al resto del mondo. In quanto all’India, governata da un integralista religioso, è un laboratorio di tendenze che spesso anticipa quel che accade nel resto del mondo. Ma non la definirei un modello potenzialmente egemonico. Siamo comunque alle prime battute di un grande gioco per ridefinire gli equilibri mondiali. Sarebbe utile che anche l’Europa avesse qualcosa da dire sul mondo che verrà.

In un editoriale sul «Corriere della Sera», Angelo Panebianco ha ripreso un tema che ho più volte affrontato: con il suo protezionismo Trump ancora una volta riesce a dire «il re è nudo», cioè ci mette di fronte a una realtà che avrebbe dovuto essere evidente, la globalizzazione si era arenata da tempo, le resistenze ai trattati crescevano da più parti, e in molti baravano al gioco da tempo.

Però bisogna fare un passaggio successivo che nessuno oggi sta facendo in Europa. Chiedersi cioè perché contro i dazi di Trump si stanno levando proteste solo dal mondo delle imprese, mentre tacciono le organizzazioni sindacali. Tace anche il partito democratico americano, peraltro. Perché sa benissimo che Trump in questo campo è popolare tra i lavoratori. Sono i lavoratori che hanno torto? Forse «non capiscono» i vantaggi del libero scambio? Oppure capiscono fin troppo bene che quel sistema negli ultimi 25 anni non è stato costruito per loro? Il protezionismo di Trump non è una strategia valida per costruire un modello di sviluppo alternativo e più equo. Però è il primo colpo di piccone contro un ordine che era già impopolare, per delle solidissime ragioni. Dopo avere criticato noi stessi quell’ordine economico per tanti anni, non dobbiamo cedere al riflesso pavloviano di difendere il libero scambio in modo acritico solo perché lo attacca lui.