Due ex pesi massimi

Grandi sconfitti – Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema ormai al termine della loro parabola
/ 12.03.2018
di Alfio Caruso

Dirsi addio senza neanche potersi incontrare un’ultima volta. Non è l’epilogo di una struggente storia d’amore, bensì di una contrapposizione politica lunga venticinque anni. Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema, sonoramente bocciati il 4 marzo e ormai al termine della loro parabola, sono stati i simboli della presunta Seconda Repubblica, che non ha mantenuto alcuna delle promesse formulate all’esordio. Anzi, l’amoralità del primo e il cinismo del secondo, essendo loro i rappresentanti dei due blocchi, hanno abbassato gli steccati della vita pubblica lasciando praterie a una genia di profittatori e voltagabbana, in più di un caso collusi con malaffare e malavita.

Condannato per frode fiscale, imputato in altri processi, al centro di vicende boccaccesche al limite del codice penale (rapporti con minorenni), sputtanato nelle sue erotiche ossessioni da una lettera aperta della moglie, senza mai aver mantenuto una promessa in dodici anni di governo, Berlusconi ha preteso di essere il nonno affettuoso e disinteressato della Patria. Non gli hanno creduto ricordando le sue recite, in questo quarto di secolo, da figlio premuroso, da irresistibile ganimede, da imprenditore senza confronti al mondo, da trascinatore del Milan pluristellato, da uomo della Provvidenza, da inventore della tv, da statista impareggiabile – si è persino paragonato a De Gasperi – da imbonitore senza confronti, il suo ruolo più vero. Persino troppo per quest’Italia dalla bocca buona, sempre fedele al vecchio motto rinascimentale: Franza o Spagna purché se magna.

In tale sarabanda di ruoli, D’Alema non gli è stato da meno. Ha sempre avuto l’ansia di essere il Migliore, antica definizione del suo maestro Togliatti, alla fine si è dovuto accontentare di fare onore al proprio nome, Massimo, soltanto come perdente. E dire che le ha provate tutte: falco e pacifista, unitario e divisivo, riformista e conservatore, uomo di partito e movimentista, di destra e di sinistra, maggioritario e proporzionale, riformatore della Costituzione e difensore della vecchia, garantista e giustizialista, occidentale e mediorientale, dialogante con gli avversari e pasdaran intransigente, cattolico e ateo, papista e antipapista, voglioso di trasparenza con i conti altrui, un po’ meno con la lista dei finanziatori della sua fondazione, ovviamente per motivi di privacy. 

Sceso in campo nel ’94 per salvare le proprie aziende, Cuccia gli aveva consigliato di portare i libri in tribunale, Berlusconi ha campato di rendita sull’inesistente pericolo comunista. Grazie a esso ha potuto quotare Mediaset in borsa e diventare uno degli uomini più ricchi del pianeta. Magnifico gestore dei propri bilanci, lo è stato un po’ meno con quelli del Paese. Più che il clamoroso tracollo del 2011, dal quale lui e il ministro del Tesoro Tremonti furono colti completamente di sorpresa, l’ha dimostrato nel 2008 la mancata vendita di Alitalia ad Air France, disposta addirittura a pagare 2miliardi e mezzo. Per motivi elettorali Berlusconi mise in piedi un’improbabile cordata d’imprenditori, che nel nome di una pseudo italianità rilevarono la compagnia e fino alla messa in liquidazione ci sono costati 7 miliardi.

D’Alema non ha fatto disastri sulle finanze nazionali concentrandosi, viceversa, sul destino del suo partito, di cui ha seguito le infinite metamorfosi, Pci, Pds, Ds, Pd, con la pretesa di tracciare la rotta, governare il timone, buttare a mare gl’insoddisfatti. Esaurita una breve stagione da leader del Pds e una brevissima da presidente del consiglio, D’Alema si è dovuto acconciare a un ruolo di grande elettore, che gli è sempre andato stretto, malgrado la veste assunta negli anni di straordinario esperto internazionale. Nella prassi quotidiana si è dibattuto, secondo la singolare definizione di Berlinguer, tra il governo e la lotta. Con il sottinteso, beninteso, che fosse egli a stabilire quando era il momento del primo e quando della seconda. Riforme, aperture, dialogo, unità se era lui ad avere posizioni di responsabilità; conservazione, nostalgia, intransigenza, frazionismo se toccava a un altro. E lo scontro senza quartiere con Renzi è nato per l’esser stato messo fuori dai giochi con in più la presa in giro: volendoselo accattivare nella fase iniziale del suo regno il mitico «bomba» gli aveva promesso che l’avrebbe fatto nominare ministro degli Esteri dell’Europa. Tranne poi designare una Mogherini qualsiasi.

Ma pare che non sia difficile abbindolare il furbissimo D’Alema. Nel ’98 ci riuscì proprio Berlusconi con la Bicamerale nata per riformare la Costituzione in senso semipresidenziale ed elezione diretta del capo dello Stato. D’Alema – che in quel periodo piaceva alla Confindustria, incuriosiva l’America di Clinton, veniva considerato il male minore dai moderati, era giudicato un possibile Blair casalingo e godeva di buona stampa nonostante la dichiarata antipatia per i giornalisti – s’immaginava già come primo presidente votato dal popolo. Per riuscirci accettò di andare sottobraccio da Vespa con Berlusconi, all’epoca indagato per corruzione, finanziamento illecito, falso in bilancio, mafia, riciclaggio e, addirittura, concorso in stragi: tutte imputazioni dalle quali è stato prosciolto. A far saltare l’accordo, su una futura amnistia, provvide Berlusconi dopo aver ottenuto che non fosse toccato il suo macroscopico conflitto d’interessi, che l’antitrust non l’obbligasse a cedere una rete televisiva, come sentenziato dalla Corte Costituzionale, che fosse varata una serie di leggi anti-giustizia.

D’Alema e  Berlusconi non lasciano molti rimpianti, in compenso lasciano tanti figli: i 350 deputati e senatori del M5S eletti sulla scia del malcontento seminato da entrambi.