Due crepe nell’Unione

Scozia e Irlanda – La premier scozzese Nicola Sturgeon ha chiesto una nuova consultazione sull’indipendenza dal Regno Unito. Ma anche l’Irlanda del Nord è una spina nel fianco
/ 20.03.2017
di Cristina Marconi

Se il compito di traghettare il Regno Unito fuori dall’Unione europea non sembrava abbastanza gravoso, ecco che Theresa May, la premier britannica, si trova a doverlo svolgere giocando un’altra partita cruciale: mantenere l’unità del suo Paese ed evitare che la Scozia, complice una Brexit contro cui si è espressa con una solida maggioranza del 62%, questa volta prenda per davvero la strada dell’indipendenza. L’annuncio di un nuovo referendum da parte della «first minister» scozzese e leader dello Scottish National Party, Nicola Sturgeon, era nell’aria da tempo, ma da politica consumata qual è la Sturgeon ha deciso di giocare sull’effetto sorpresa per destabilizzare l’avversaria rispondendo al via libera alla Brexit da parte di Londra. Così come la May ha deciso di respingere la domanda, avvalendosi della sua posizione.

Lunedì 13 marzo la Sturgeon ha dichiarato che sottoporrà al voto del parlamento scozzese il mandato per indire un voto tra l’autunno del 2018 e la primavera del 2019, quando le modalità dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea saranno abbastanza chiare da consentire una decisione. La May ha deciso non solo di chiedere di rimandare il voto a dopo la Brexit, ottenendo una risposta insolitamente conciliante da parte della Sturgeon, ma ha detto che «non è il momento» per votare, suscitando le ire della controparte scozzese, secondo cui è «la prova scientifica» che Londra teme che Edimburgo voti per andarsene. Giocare due partite così campali contemporaneamente è troppo anche per una politica metodica come la May.

Rispetto al 2014, quando il 55% degli scozzesi votò per rimanere all’interno del Regno Unito, i sondaggi dicono che i venti indipendentisti sono ai massimi storici. L’unico problema è che non sono altrettanto forti i sentimenti pro-europeisti sui quali la Sturgeon contava per marcare la differenza con Londra e per indicare un futuro della Scozia all’interno dell’Unione europea, tanto che ha detto di ambire a ricalcare il modello norvegese nelle relazioni tra Edimburgo e Bruxelles, in modo da mantenere l’accesso al mercato unico e permettere al capoluogo scozzese, seconda piazza finanziaria britannica dopo Londra, di fare concorrenza ad una City che rischia di uscire danneggiata dalla Brexit.

Tuttavia, come sottolineato dalla leader laburista scozzese Kezia Dugdale, il problema è che l’argomento economico a favore dell’indipendenza appare più debole che in passato, perché se tre anni fa l’SNP poteva promettere 7,9 miliardi di sterline di entrate legate al petrolio del Mare del Nord grazie ad un prezzo a 100 dollari al barile, oggi l’oro nero costa la metà. Inoltre il Paese da solo avrebbe un deficit superiore al 9%, incompatibile con un’ingresso nell’Unione europea che a in questo momento – ma non è detto che la situazione non vada evolvendosi – nessuno sembra volere. Anche perché è difficile che la Ue possa accogliere la Scozia a braccia aperta col rischio di fomentare movimenti indipendentisti nel resto del continente, Catalonia in primis, ed è ancora più difficile che la Sturgeon possa proporre al Paese di adottare l’euro – materiale politico incandescente nel nord Europa, ma non solo – come valuta post-indipendenza.

La minaccia scozzese non è l’unica crepa nell’unione britannica. La situazione politica in Irlanda del Nord è potenzialmente ancora più preoccupante, visto che alle ultime elezioni il partito repubblicano Sinn Féin è andato molto bene, raggiungendo da solo 28 seggi, contro i 29 del DUP, Democratic Unionist Party, e mettendo con l’aiuto degli altri partiti gli unionisti per la prima volta in minoranza nel Parlamento dell’Irlanda del Nord. Dal giorno delle elezioni, i partiti hanno tre settimane per formare un governo in base agli accordi del Venerdì Santo del 1998 e questo tempo sta per scadere: in caso di mancata intesa, il potere tornerebbe a Londra. Appena la Sturgeon ha fatto la sua «imboscata» alla May, la leader nordirlandese di Sinn Féin, Michelle O’Neill, ha dichiarato che «la Brexit sarebbe un disastro per l’economia, e un disastro per gli irlandesi» e ha aggiunto che «un referendum sull’unità irlandese deve avvenire il prima possibile».

Il 56% degli irlandesi del Nord ha votato per rimanere nell’Unione europea al referendum del 23 giugno scorso e la loro situazione è una delle conseguenze più delicate della Brexit, visto che rimettere una frontiera tra le due parti dell’isola celtica romperebbe un equilibrio delicato, raggiunto a fatica dopo 30 sanguinosi anni. I sondaggi, che però non sono particolarmente recenti, raccontano un paese cauto nel riaprire le ferite della storia, tanto che solo il 22% della popolazione sarebbe a favore dell’indipendenza. Anche il piccolo Galles ha sottolineato di voler «decidere il proprio futuro» qualora la Scozia rompesse l’unità britannica, secondo le parole di Leanne Wood, leader del partito indipendentista Plaid Cymru. «Se i negoziati del Regno Unito sulla Brexit portano l’interesse nazionale gallese ad essere anch’esso trascurato, aumenterà il sostegno per un maggiore controllo dei nostri affari in Galles», ha aggiunto la Wood.

La May, che ha condannato l’iniziativa della Sturgeon definendola un «gioco politico», ha annunciato che farà un giro del Paese per resuscitare il senso di unità alla vigilia dell’avvio ufficiale dei negoziati sulla Brexit, attesi entro la fine del mese di marzo ma la cui data potrebbe essere anticipata per venire incontro agli auspici di una Bruxelles oberata da appuntamenti elettorali importanti come quello francese. Il suo grande successo, fino ad ora, è stato quello di portare a casa l’iter parlamentare del progetto di legge sulla Brexit senza ribellioni di rilievo da parte dei deputati, troppo timorosi di andare contro la volontà degli elettori espressa nel referendum anche per approvare uno dei due emendamenti votati da una camera dei Lord ben più riottosa, ossia quello per dare un voto «significativo» al Parlamento al termine del processo negoziale di due anni con Bruxelles. Grazie anche alla totale assenza di un’opposizione, la May è riuscita a superare un passaggio che aveva cercato di evitare in tutti i modi e che solo due sentenze, una da parte dell’Alta Corte e una della Corte Suprema, nate da un’azione legale portata avanti da parte di un gruppo di cittadini, l’ha costretta ad affrontare. Risultato sul quale anche Elisabetta II ha messo il sigillo dell’approvazione reale all’avvio formale dei negoziati di divorzio che dureranno circa due anni.

Questo lascia alla May le mani libere per negoziare come vuole, senza vincoli, forte anche di un’economia robusta, con la disoccupazione ai minimi al 4,7% e una crescita superiore alle aspettative, in contrasto con le previsioni drammatiche di chi immaginava il voto sulla Brexit seguito da una catastrofe assoluta. Certo, è ancora presto per giudicare e la partita non è ancora iniziata. Ma la possibilità, più volte ventilata, di dover ricorrere alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio nelle relazioni con l’Europa qualora non venisse raggiunto alcun accordo con Bruxelles terrorizza sia le imprese che quel 48% di cittadini che non ha votato per la Brexit. E senza lavoratori Ue interi settori come quello delle costruzioni – con 500 miliardi di sterline di infrastrutture in via di costruzione – è a rischio, per non parlare della sanità e dell’istruzione, per citarne solo alcuni.

Sul negoziato pesa l’ipotesi circolata in un documento della Camera dei Lord e ribadita dal ministro degli Esteri Boris Johnson secondo cui il Regno Unito non sarebbe legalmente tenuto a pagare nulla per uscire dall’Unione europea e che i 60 miliardi di sterline che secondo alcune stime prudenziali Londra dovrebbe versare alle casse europee per liquidare accordi pregressi non sarebbero in nessun modo un obbligo. I britannici non sono gli unici a mostrare i muscoli prima dell’avvio delle trattative, visto che da Bruxelles hanno fatto sapere che queste ultime non si avvieranno ufficialmente prima del 20 giugno, data per la quale è fissato il primo summit. Iniziando a rosicchiare via mesi dai due anni previsti dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona e lasciando alla May l’iniziativa di sbrigarsi a calare le sue carte, se proprio vuo