Le quotazioni dei bookmakers parlano chiaro: Mario Draghi è il grande favorito nell’elezione del presidente della Repubblica italiana. È dato a 1,9 (cioè 19 euro di vincita puntandone 10). Alle sue spalle, a 2,5, la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Poi Pier Ferdinando Casini a 5, Paolo Gentiloni a 7, la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati a 11, Silvio Berlusconi a 15, Giuliano Amato a 30, Letizia Moratti a 40. E a due settimane dall’elezione (si comincerà alle 15 del 24 gennaio) il tempo sembra lavorare per l’attuale capo del Governo, benché vada ricordato che nel 2015, alla vigilia della votazione che avrebbe incoronato Sergio Mattarella, il favorito degli allibratori era Casini. Draghi raccoglie il consenso delle persone fuori dal Palazzo, che vedono in lui la persona perbene e competente, mentre ne raccoglie molto meno in Parlamento. Deputati, senatori e partiti dai quali sono espressi temono di valere, con Draghi presidente, come il 2 di picche. Ne soffrono l’autorevolezza morale, l’ascendente pubblico, il sostegno internazionale. Fino all’altro giorno paventavano pure che la sua ascesa al Quirinale sancisse la fine anticipata della legislatura con perdita dei diritti pensionistici, previsti dal prossimo settembre. Viceversa, si è oramai capito che soltanto l’elezione di Draghi potrebbe consentire il proseguimento della legislatura fino alla scadenza naturale, la primavera 2023.
La crescita della designazione di Draghi, pur nell’infuriare di candidature e di ballon d’essai, che dureranno fino all’ultimo minuto utile, è data anche dai numeri. Inizialmente si è creduto che le sue possibilità fossero legate a un’investitura fulminea, entro le prime tre chiamate quando serviranno i due terzi dei voti (672 su 1008, somma di 629 deputati, 321 senatori, 58 delegati regionali). Al contrario, il marasma nei due campi avversi, la difficoltà di trovare nomi spendibili o addirittura capaci di affascinare la palude dei senza partito, quasi un centinaio di elettori, trasforma Draghi nella roccia, cui aggrapparsi per non perdere la faccia o per uscire dal pantano delle bocciature reciproche. Dalla quarta votazione basterà la maggioranza semplice (505): centrodestra e centrosinistra ballano su numeri più o meno equivalenti. Il blocco conservatore ha 451 voti; quello progressista 414, in grado di salire a 461 con l’apporto di piccole formazioni d’area, soprattutto Italia viva dell’ex matador (Merkel dixit) Renzi. L’ex presidente del Consiglio vanta 43 fra deputati e senatori, tuttavia i sondaggi elettorali per il 2023 collocano il suo partitino sotto il 2%. Renzi è, dunque, all’ultimo giro di giostra e cercherà di capitalizzare al massimo questa residua rendita di posizione. Non a caso da un mese fa gli occhi dolci a Matteo Salvini, che da presunto leader del centrodestra vorrebbe diventare il regista super partes della contesa: un ruolo troppo ambizioso per le sue modeste qualità di tribuno.
Per di più deve fare i conti con la potenza di fuoco – quattrini, televisioni, giornali – di Berlusconi, il reduce da tutto, la cui autocandidatura presidenziale è stata sorprendentemente presa sul serio anche al di fuori dell’abituale giro di maggiordomi e lacchè. Il personaggio che ha spaccato in due il Paese, che ha divelto la gran parte degli steccati etici, che da venticinque anni è in conflitto permanente con la magistratura, viene addirittura presentato quale possibile pacificatore. Da parte degli interessati laudatores si gareggia nel dimenticare che è un pregiudicato, che ha fatto parte della P2 massonica, che giustificò il proprio interventismo nei confronti di una ninfetta minorenne dipingendola come la nipote di Mubarak, che volò fino a Tripoli per baciare la mano di Gheddafi. Eppure lui sostiene di avere in tasca, cioè di aver comprato, i 60 voti mancanti al centrodestra per garantirsi la maggioranza richiesta. Magari è vero, però è altrettanto vero che all’interno della Lega, di Fratelli d’Italia, della stessa Forza Italia, si contano numerosi franchi tiratori, pronti a impallinarlo nel segreto dell’urna.
Quanti sono bravi nel leggere i fondi di caffè, quanti rifiutano di fermarsi all’evidenza per trovare conforto nel cerebralismo, sostengono che in realtà dietro il superattivismo di Berlusconi si nasconda il sottile disegno di esser egli a proporre, nella sorpresa generale, il nome di Draghi o, in alternativa, di una donna. Per la prima volta, infatti, l’altra metà del cielo avanza la giusta pretesa di non fungere da decorazione dell’arredo. Purtroppo è fuori per motivi di salute Emma Bonino, che avrebbe la statura di una eccellente capa di Stato; si è invece dichiarata non disponibile la novantunenne senatrice a vita Liliane Segre, la sopravvissuta ad Auschwitz divenuta la coscienza critica del Paese. Di conseguenza il mazzo delle possibili candidate si riduce a tre nomi, a meno di sorprese in extremis: Cartabia, Alberti Casellati e Moratti.
Cartabia ha uno straordinario cursus honorum: professoressa universitaria, presidente della Corte Costituzionale, autrice da ministra di una sostanziale riforma del sistema giudiziario penale. La vicinanza al movimento cattolico Comunione e liberazione le garantisce sostenitori in entrambi gli schieramenti, necessari per supplire alla mancanza di empatia. Invece l’ex avvocata matrimonialista Alberti Casellati è espressione del berlusconismo più spinto. Ad aprile 2011 fu una dei 314 deputati della maggioranza di centrodestra per i quali la notte del 27 maggio 2010 Ruby era la nipote di Mubarak e dunque le sette telefonate di Berlusconi alla questura di Milano per farla rilasciare erano telefonate da premier, telefonate di Stato. Quindi nessun reato e caso mai a giudicare avrebbe dovuto essere il tribunale dei Ministri, non il tribunale di Milano. Ma la carica che Alberti Casellati ricopre e la mancanza di alternative potrebbero pesare nel giudizio di chi sarebbe disponibile a ogni scelta pur di opporsi a Draghi.
La glaciale Letizia Moratti, attualmente assessore alla Sanità e vicepresidente della Lombardia, appartiene alla Milano più chic, più ricca, più cosmopolita. Nasce bene e si sposa meglio: Gianmarco Moratti erede di una famiglia di petrolieri, proprietaria in due tornate dell’Inter più sfavillante. È stata presidente della Rai, ministra dell’Istruzione, sindaca di Milano; poi la vedovanza e un inatteso ritorno alla politica in una posizione di ripiego, tipica del civil servant: una pulsione che ha caratterizzato lei e il marito fin dai tempi del sostegno alla comunità di San Patrignano per il recupero dei drogati. Moratti appartiene al centrodestra, ma potrebbe riscuotere consensi pure nella sinistra ortodossa. Il suo appare il nome più spendibile per avere una presidente dopo dodici presidenti. In un articolo che pubblicheremo settimana prossima parleremo degli outsider nella corsa al Quirinale.
Draghi la roccia, Berlusconi e le tre papabili
Chi potrebbe essere il prossimo presidente della Repubblica italiana dopo Sergio Mattarella? Il favorito è l’attuale capo del Governo
/ 10.01.2022
di Alfio Caruso
di Alfio Caruso