Le visioni discordanti della realtà e della storia che da decenni agitano quella porzione di Medio Oriente hanno echi anche alle nostre latitudini. Echi che risuonano nelle parole dei rappresentanti dell’Associazione Svizzera-Israele e della Società Svizzera-Palestina.
«La situazione è molto complessa», afferma Giuseppe Giannotti, portavoce dell’Associazione Svizzera-Israele, sezione Ticino, per il quale comunque la responsabilità dell’escalation di queste settimane è da attribuire in special modo ad Hamas. «Non si tratta di un confronto tra due Stati – precisa – ma di un confronto tra uno Stato, Israele, e Hamas, dichiarato un’organizzazione terroristica dall’Ue e dalla maggior parte dei Paesi occidentali. Già questo complica la possibilità di intavolare una trattativa per arrivare alla pace. Anche perché Hamas mira alla distruzione dello Stato di Israele e alla cacciata di tutti gli ebrei». È proprio l’organizzazione religiosa islamica – secondo l’intervistato – a tenere in condizioni di disagio e povertà il popolo palestinese. «Hamas spende milioni che gli arrivano da molti Paesi, Svizzera compresa, per comprare armi. In dieci giorni di guerra ha lanciato diverse migliaia di missili verso Israele. Razzi che costano molto denaro, che Hamas non ha speso per garantire una vita migliore alla sua gente, ma solo per combattere Israele». E la guerra colpisce con particolare violenza la popolazione civile che, secondo il nostro interlocutore, viene usata da Hamas come scudo. «L’organizzazione non esita infatti a lanciare razzi dai cortili degli asili, dai tetti degli ospedali, sfruttando anche le ambulanze per gli spostamenti dei suoi militanti».
D’altro canto per Giannotti la popolazione palestinese in gravi difficoltà va senza dubbio sostenuta. «Ma non inviando denaro che Hamas spenderà per armarsi. Ecco un esempio. L’Ue e altre organizzazioni internazionali hanno finanziato diverse volte la costruzione a Gaza di un grande desalinizzatore che potesse risolvere il problema dell’acqua potabile. Finora non è mai iniziata la costruzione perché i soldi sono stati usati per i missili. Bisognerebbe piuttosto mandare squadre di esperti a costruite l’impianto. Non soldi dunque ma opere concrete. E questo vale per qualunque struttura: scuole, ospedali, case, ecc.».
Di parere diverso Geri Müller, presidente della Società Svizzera Palestina. «Quella in atto in Medio Oriente è una guerra di colonizzazione. Dal 1947 in avanti il popolo palestinese ha dovuto subire un’esclusione dopo l’altra. Adesso la violenza è di nuovo esplosa, dopo un’infinità di provocazioni. Ultime in ordine di tempo: l’intervento della polizia israeliana contro i palestinesi dentro e fuori la moschea di al Aqsa, nel complesso della Spianata delle moschee, e l’espulsione di famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme est».
Chi ci guadagna da questa situazione in temine di potere e consenso? Le frange estreme delle due società, sostiene il nostro interlocutore. «Da una parte c’è Benjamin Netanyahu: prima in evidente crisi di consensi, tra guai giudiziari e instabilità politica. Adesso il fronte intorno a lui pare ricompattarsi, con un bilancio relativamente esiguo di vittime da parte israeliana». D’altro canto – continua l’intervistato – anche Hamas, organizzazione religiosa islamica che ha un ramo militare e uno socio-politico (ha vinto le elezioni del 2006), accresce la sua influenza in questo contesto poiché guadagna consensi nella società palestinese, «essendo l’unica fazione che fa qualcosa di concreto contro l’occupazione, qualcosa di violento certo, ma concreto. Mahmoud Abbas conta poco nel gioco politico, lui che ha rimandato a data indefinita le elezioni per paura della vittoria di Hamas».
Queste vampate di violenza tra israeliani e palestinesi si sono già verificate decine di volte, continua Müller. «Con la comunità internazionale che resta a guardare: il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Usa, Francia, Regno unito) non si esprime. L’Assemblea generale dell’Onu protegge la Palestina ma le sue parole non hanno nessun impatto sulla realtà. Russia e Cina coltivano buone relazioni con Netanyahu, dati gli enormi interessi in gioco (petrolio, gas, infrastrutture). Non credo che qualcosa cambierà nel prossimo futuro». Ma per l’intervistato non si può andare avanti così. «I palestinesi non sono più disposti ad accettare un simile squilibrio in termini di potere. E una fusione dei due Stati sarebbe realizzabile soltanto a parità di diritti e doveri».
Una speranza, per l’intervistato, viene dalla Palestina israeliana: Haifa, Tel Aviv, Jaffa, Nazareth. «In quei centri, palestinesi e arabi israeliani (il 20 per cento circa della popolazione israeliana) hanno inscenato manifestazioni per protestare contro le politiche discriminatorie e oppressive di Israele nei loro confronti e contro i bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Manifestazioni pacifiche, in opposizione a quello che succedeva ad esempio durante l’Intifada. Questo può portare la società internazionale a cambiare visione sui palestinesi, percependoli come un popolo unito che non intende più essere schiavo».