Dove l’omosessualità fa ancora paura

Singapore depenalizza i rapporti gay ma Taiwan resta l’unico paese asiatico a concepire il matrimonio egualitario
/ 29.08.2022
di Giulia Pompili

A Singapore essere omosessuale non è più illegale. Ma non è tutto rose e fiori per la comunità Lgbtq+ (in generale tutte quelle persone che non si sentono rappresentate sotto l’etichetta di donna o uomo eterosessuale) della città-stato asiatica. La scorsa settimana il primo ministro Lee Hsien Loong ha annunciato sulla tv nazionale l’abrogazione della legge 377A, quella che criminalizza i rapporti gay, ma allo stesso tempo ha dichiarato che rafforzerà la cornice legale per preservare la definizione di matrimonio come unione tra uomo e donna. Secondo i media locali, si potrebbe trattare di una modifica della Costituzione di Singapore che lascerà la possibilità di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso soltanto al Parlamento, e non alle Corti di giustizia, rendendo molto più difficile la strada verso la legalizzazione del matrimonio egualitario. «Il comportamento sessuale privato tra adulti consenzienti non solleva alcun problema di ordine pubblico. Non c’è alcuna giustificazione per perseguire le persone per questo motivo né per farne un crimine», ha detto Lee Hsien Loong. «Questo porterà la legge in linea con gli attuali costumi sociali e spero di dare un po’ di sollievo agli omosessuali di Singapore».

Da anni gli attivisti di Singapore chiedevano l’abrogazione della legge 377A. Una norma introdotta negli anni Trenta, durante il periodo coloniale dell’impero britannico, e poi lasciata in vigore anche nel 1963, quando Singapore divenne parte del territorio della Malaysia, e ancora due anni dopo, quando dichiarò la sua indipendenza. Già nel 2007 il Parlamento aveva discusso il superamento della legge – che prevede fino a due anni di carcere per il sesso gay – ma era stato deciso di lasciare così la norma, consolidando allo stesso tempo una prassi di «non applicazione» delle pene. Per la comunità Lgbtq+ comunque restava un pericolo, soprattutto per il suo uso strumentale. Singapore è un modello di prosperità economica ed efficienza asiatica, di sviluppo e sicurezza, ma è un paese solo nominalmente democratico. Il pluralismo praticamente non esiste, il People’s action party, di cui il primo ministro Lee è segretario generale, governa sin dal 1959. Il controllo sui dissidenti o sui critici del governo si effettua con ogni strumento. Anche con accuse e leggi del secolo scorso.

Pur essendo uno degli esempi più evidenti e importanti del conservatorismo asiatico, Singapore non è l’unico paese rimasto indietro, rispetto alle società occidentali, nell’apertura ai diritti legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. E questo nonostante pure il figlio del fratello di Lee Hsien Loong, Li Huanwu, sia gay e abbia sposato il suo partner in Sudafrica nel 2019. Nella vicina Malaysia, a maggioranza musulmana, l’ex vicepremier e leader dell’opposizione Anwar Ibrahim è stato processato alcune volte per sodomia. In India solo 4 anni fa, con una sentenza storica, la Corte suprema ha depenalizzato il sesso gay, abrogando l’articolo 377 del Codice penale che da 157 anni prevedeva una pena massima di 10 anni per i rapporti sessuali definiti «contro l’ordine della natura». La modifica della legge ha favorito l’accettazione dell’omosessualità da parte dei gruppi più conservatori della società. Secondo un sondaggio di giugno della società americana Gallup, rispetto a 10 anni fa c’è stato un sostanziale cambiamento della percezione dell’omosessualità: nel 2011, solo il 12% degli indiani affermava che la propria città era un posto sicuro per gli omosessuali, mentre ora è il 53% a dirlo. In India, spiega la società d’analisi, è stata soprattutto quella decisione della Corte suprema nel 2018 ad aver progressivamente cambiato il panorama giuridico per la minoranza Lgbtq+. La stessa cosa è avvenuta in Nepal, dopo che nel 2007 l’omosessualità è stata decriminalizzata e, 4 anni dopo, è stato riconosciuto ufficialmente il terzo genere nei documenti d’identità.

A oggi la battaglia degli attivisti, da Singapore a Katmandu, riguarda un tipo di discriminazione più locale, legato alle tradizioni e al pregiudizio religioso, e soprattutto il riconoscimento del matrimonio egualitario. Ma nella più industrializzata e globalizzata Asia orientale le cose non vanno meglio. È Taiwan, la piccola isola autogovernata che la Cina rivendica come proprio territorio, a essere l’unico paese asiatico ad aver legalizzato il matrimonio omosessuale. È stato il governo di Taipei guidato dalla progressista Tsai Ing-wen a prendere la decisione storica nel 2019, e per una ragione essenzialmente politica. Secondo Tsai e il Partito democratico progressista, la Repubblica popolare cinese e le sue minacce sulla riunificazione possono essere battute soltanto costruendo una forte identità taiwanese, che si basi sulla libertà e sui diritti di tutti in contrapposizione con l’autoritarismo cinese.

Dalla politica internazionale, però, non ci si libera mai e infatti un paio di settimane fa c’è stata molta polemica quando InterPride, l’organizzazione internazionale incaricata di promuovere il movimento Pride, ha praticamente costretto gli organizzatori taiwanesi a cancellare il «WorldPride Taiwan 2025» dopo aver chiesto agli ospitanti di cancellare il nome Taiwan (inviso a Pechino) e di utilizzare invece il nome della città ospitante, Kaohsiung. Dall’altra parte dello Stretto, nella Cina continentale, i diritti delle minoranze Lgbtq+ invece che aumentare diminuiscono. Se negli anni Duemila sembrava che l’attivismo stesse fiorendo anche nella Repubblica popolare cinese, nella nuova Cina di Xi Jinping – più attenta al controllo, al conformismo, al conservatorismo – c’è stata una evidente involuzione. Già da anni l’Autorità di controllo dei media cinesi, responsabile della censura nel paese, ha iniziato a chiedere modifiche, a volte a bandire film e serie tv su temi o con personaggi omosessuali. L’anno scorso le stesse autorità hanno chiesto alle compagnie di media di evitare l’esposizione dei «niangpao», un termine che si traduce approssimativamente con «uomini effeminati», che non sarebbero conformi alla mascolinità socialista.

La tradizione confuciana rifiuta chi rompe l’omogeneità sociale, ed è nella stessa tradizione che si fonda la marginalizzazione delle minoranze Lgbtq+ anche in Corea del sud e Giappone. Il paese del Sol levante è l’unico del gruppo del G7 a non avere una legislazione che promuove l’unione per le coppie omosessuali. L’omosessualità non è considerata una devianza ma un aspetto della vita estremamente privato, da nascondere. In Corea del sud, al conservatorismo della società si unisce anche la forza politica delle lobby religiose: ogni anno il Pride di Seul è accompagnato da rumorose proteste dei gruppi religiosi. Perfino l’ex presidente democratico, progressista ed ex avvocato dei diritti umani, Moon Jae-in, in 5 anni di leadership non è riuscito a far approvare nessuna legge a protezione delle minoranze Lgbtq+.