Dopo il Tpp, è la volta del Nafta

Usa-Messico – Fra Trump e Nieto è guerra dichiarata: a cominciare dall’avvio della fortificazione del Muro fino alla rinegoziazione del Nafta, il trattato di libero scambio commerciale fra Usa, Messico e Canada firmato da Bush nel '92
/ 30.01.2017
di Angela Nocioni

Va di gran corsa l’agenda politico-commerciale di Donald Trump. Il primo a subire gli effetti di questa svolta protezionistica è il Messico. Le dichiarazioni incendiarie sui rapporti che intende avere con il Paese, gli insulti razzisti ai messicani immigrati negli Stati Uniti durante la campagna elettorale e ora il via formale (mercoledì scorso Trump ha firmato l’ordine esecutivo) alla fortificazione di 3100 chilometri di Muro, hanno fatto saltare i nervi al presidente Enrique Peña Nieto. Nieto non parteciperà al vertice con Trump alla Casa Bianca martedì prossimo come previsto. Di fatto Trump sta traducendo nei fatti le parole d’ordine brandite durante la sua corsa alla Casa Bianca. 

Ma c’è anche un muro economico fra i due Paesi che sembra diventare sempre più consistente. «Cominceremo a rinegoziare il Nafta, tratteremo su immigrazione e sicurezza alla frontiera» ha detto il neopresidente americano qualche giorno fa. E già l’espressione «cominceremo a rinegoziare» è sembrata ad alcuni osservatori una frenata rispetto alle intenzioni dichiarate in campagna elettorale, durante la quale Trump non ha parlato di trattare alcunché, bensì di voler ampliare il Muro già esistente lungo il confine, di far pagare il costo dell’opera ai messicani e di stracciare il Nafta, (North American Free Trade Agreement).

Si tratta dell’accordo economico in vigore dal 1994 tra Stati Uniti, Messico e Canada che creando una unica area senza dazi e senza confini per le merci – diversamente dalle persone le merci possono attraversare senza vincoli la frontiera – ha reso molto conveniente per le industrie americane il lavoro a prezzi stracciati in terra messicana e ha disseminato la zona oltre confine di fabbriche delocalizzate, le «maquiladoras». In occasione dell’entrata in vigore dell’accordo, il primo gennaio del 1994, ci fu la levata in armi di una parte della popolazione indigena di uno degli Stati più poveri del Messico, il Chiapas, sotto il comando militare e politico dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale fondato dal sub comandante Marcos che tanta fortuna mediatica ebbe per qualche anno in Europa (meno in patria). Trump ha dichiarato di voler incontrare il primo ministro canadese Justin Trudeau, sempre allo scopo di voler cancellare il Nafta, ma per questo appuntamento una data non c’è ancora.

Trump e Peña Nieto si erano visti, a fine agosto, in piena campagna elettorale americana, quando l’allora candidato repubblicano piombò in Messico con una raffica di dichiarazioni minacciose per la diplomazia tra i due Paesi. La visita ha avuto conseguenze complicate per il presidente messicano che appartiene alla destra tradizionale locale e si trova a dover trattare ad armi impari con un vicino tanto potente quanto determinato a stravolgere le relazioni bilaterali tessute negli ultimi decenni. 

Le parole di Trump in quell’occasione, il suo annuncio di voler deportare in massa gli immigrati messicani e di voler rendere assai sconveniente per le imprese americane delocalizzate in Messico continuare a produrre oltre confine, hanno annichilito Peña Nieto.

La minaccia di imporre una tassa del 35% alle aziende americane che realizzano i loro prodotti sotto costo in Messico, per poi rivenderli negli Stati Uniti, il tweet presidenziale rivolto alla General Motors: «Sta mandando le Chevy Cruze costruite in Messico ai concessionari americani, senza tasse. Fatele negli Usa o pagherete grossi dazi!». E soprattutto l’annuncio della Ford di riportare la produzione negli Usa, hanno fatto il resto. 

La Ford subito dopo Capodanno ha annullato un investimento di 1,6 miliardi di dollari previsto per lo stabilimento messicano di San Luis Potosì e ha fatto sapere di voler destinare invece 700 milioni di dollari all’espansione della fabbrica di Flat Rock, in Michigan. La Ford continuerà comunque a costruire in Messico, nell’impianto di Hermosillo. Ma la notizia non può certo rasserenare il governo messicano. 

In preparazione dell’incontro che avrebbe dovuto avere luogo martedì, Peña Nieto aveva spedito a Washington i suoi ministri degli Esteri e dell’Economia, Luis Videgaray e Ildefonso Guajardo. Videgaray, considerato l’architetto del dialogo fallimentare d’agosto con Trump, proprio a causa di quel disastro perse il posto di ministro dell’Industria. È stato recuperato misteriosamente in extremis da Peña Nieto e fatto ministro degli Esteri. Secondo indiscrezioni insistenti sarebbe stato recuperato proprio su pressione statunitense. A pieno titolo, quindi, sarà interlocutore della Casa Bianca sulla complicatissima agenda bilaterale.

Accanto alla questione dell’immigrazione messicana negli Stati Uniti, l’alto argomento in discussione che va a complicare le relazioni fra i due Paesi sarà il Nafta. L’accordo, firmato nel 1992 dal presidente George Bush insieme all’omologo messicano Salinas de Gortari e al premier canadese Brian Mulroney, entrato in vigore due anni dopo, è un’espansione al Messico del precedente Canada-U.S. Free Trade Agreement del 1989. Ha tolto dazi e altri diritti doganali e le restrizioni al commercio su molte categorie di prodotti, inclusi motoveicoli, componenti di auto, computer, tessili e prodotti agricoli. Ed ha conseguentemente ridisegnato l’economia messicana stravolgendo nel profondo le modalità di produzione, il mercato del lavoro e persino la geografia industriale (e quindi quella degli insediamenti umani) di una grande parte del Paese.

Il Nord del Messico è ormai da anni una succursale delle produzioni sotto costo statunitense. Sui costi e i benefici di quell’accordo, la discussione in Messico non s’è mai chiusa. È solo apparentemente paradossale che i simpatizzanti zapatisti, cioè l’estrema sinistra antisistema messicana tendenzialmente anarchica, possa oggi brindare alle intenzioni di Trump, personaggio non proprio in linea ideologica con le analisi politiche del sub comandante Marcos. Ma comunque la si pensi in proposito, è innegabile che una denuncia dell’accordo stravolgerebbe l’economia legale del Messico che, per dirne una, ha registrato nel 2015 un volume di interscambio con il suo potente vicino di 114 miliardi di dollari (nel ’93, l’anno prima dell’entrata in vigore del Nafta, il volume di scambio fu di 297 miliardi). E su questo concordano tutti, a destra e a sinistra, tanto in Messico come negli Stati Uniti.

La recente decisione di stracciare il Trattato del Pacifico, l’accordo di libero scambio tra gli Usa e altri 11 paesi firmato da Barack Obama, è stato un brutto presagio per Peña Nieto. Il Messico faceva ovviamente parte di quel trattato, che altro non era che un ampliamento del Nafta ad altri Stati, compresi Perù e Cile le cui economie prevedono di risentire pesantemente della novità. La sua cancellazione gli peserà. Ne beneficeranno invece, perlomeno sul breve periodo, Argentina e Brasile che, essendo il tandem trainante dell’altro e più vecchio mercato unico sudamericano, il Mercosur, guadagnano tempo per trattare nuovi accordi e incassano intanto la vittoria insperata di non ritrovarsi relegati al margine della nuova architettura del commercio internazionale.

Donald Trump ha tutti i poteri per fare del Nafta ciò che vuole. Gli basta una notifica con preavviso di sei mesi per recedere dall’accordo perché negli Stati Uniti la decisione di notificare il recesso è facoltà presidenziale. Infatti, nonostante la Costituzione americana affidi al Congresso il potere di «regolare il commercio con gli Stati esteri», la gran parte di questo potere è stato di fatto delegato al presidente. Per siglare nuovi accordi commerciali con Stati esteri serve l’approvazione del Congresso, ma per disfare quelli già esistenti basta la firma presidenziale. Qualora il Congresso statunitense fosse contrario a una rinegoziazione del Nafta, e non pare proprio che lo sia, dovrebbe reclamare i poteri delegati con nuove leggi che dovrebbero guadagnare il consenso dei due terzi dei membri di Camera e Senato per superare il volere presidenziale. Scenario assai improbabile al momento.