Negli anni Settanta decine di cittadini giapponesi furono rapiti da agenti della Corea del Nord. Come in un film di James Bond, alcuni dei rapitori arrivavano sulle coste giapponesi sui sommergibili, drogavano gli ignari giapponesi e li portavano nel loro Paese, allora guidato dal nonno dell’attuale leader Kim Jong-un – il fondatore della monarchia comunista Kim Il-sung – dove erano costretti a insegnare la loro lingua alle future spie nordcoreane.
È significativo il fatto che durante la sua prossima sosta in Giappone, parte di un viaggio di 12 giorni con visite in cinque paesi dell’Asia, il presidente americano Donald Trump abbia deciso di incontrarsi con i familiari degli «scomparsi». Il governo giapponese ha stilato una lista di diciannove nomi, quello nordcoreano ne ha confessati tredici e cinque sono rientrati in Giappone ma si ritiene che le vittime di questa singolare forma di guerra fredda siano state decine, forse centinaia.
Trump sarà in Asia dal 3 al 14 novembre. Un viaggio insolitamente lungo per un presidente americano, concepito, forse, proprio per mostrare ad alleati e avversari che l’area dell’Asia-Pacifico rimane al centro delle preoccupazioni dell’inquilino della Casa Bianca. Il presidente visiterà nell’ordine Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine. In Vietnam parteciperà al vertice dell’organizzazione dei paesi dell’Asia-Pacifico – o APEC –, nelle Filippine alle celebrazione del 50.mo anniversario della fondazione dell’ASEAN, l’associazione dei paesi del sudest asiatico, due organizzazioni multilaterali delle quali non è certo un acceso sostenitore.
L’altro tema che corre in parallelo a quello della minaccia nordcoreana è quello del commercio. La volontà di uscire dagli accordi multilaterali e di favorire quelli bilaterali è stata uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Trump ed è solo parzialmente stata seguita dai fatti. Una delle prime iniziative del presidente, infatti, è stata l’abbandono della Trans Pacific Partnership (TPP), che era stata lanciata dal suo predecessore Barack Obama (quando segretario di Stato era Hillary Clinton) nel quadro di quello che fu chiamato il «pivot» (perno) sul Pacifico, vale a dire lo spostamento del centro degli interessi strategici americani dall’Europa e Medio Oriente all’Asia. L’uscita americana ha privato la regione di un blocco di alleanze in grado di contenere l’inevitabile espansionismo cinese. Si tratta di un tema che è stato spinto in secondo piano dalle continue provocazioni di Kim Jong-un e dalle diatribe con la Cina ma che è di importanza centrale per molti paesi asiatici, tra cui quelli che ospiteranno il presidente. Fino ad ora Trump e i suoi non hanno offerto alternative al TPP, né elaborato una visione complessiva dei rapporti tra gli Usa e gli altri paesi dell’area.
Come ha notato Euan Graham sulla rivista «The Diplomat», «per l’Amministrazione Trump le cose in Asia potrebbero andare peggio». Infatti, «la sua rete di alleanze è rimasta sostanzialmente intatta e Trump è riuscito ad avere molti consensi nella sua battaglia per isolare la Corea del Nord».
Probabilmente è per sfruttare l’onda lunga di questa situazione che gli impegni programmati per il presidente in Giappone e Corea del Sud hanno un prevalente tono militare e sono stati concepiti in modo da sottolineare l’aspetto difensivo delle alleanze degli Usa. In Giappone, il presidente avrà anche colloqui col premier Shinzo Abe, reduce da una importante vittoria elettorale che gli permetterà di portare avanti i suoi programmi di riarmo e, in prospettiva, di abbandono della Costituzione pacifista che il Giappone si è dato dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.
Un portavoce della Casa Bianca ha definito «improbabile» che Trump si rechi nella zona smilitarizzata sul confine tra le due Coree, sul 38esimo parallelo. La fine della guerra di Corea, nel 1953, non è stata mai formalizzata in un trattato di pace. Da allora, le due parti sono formalmente in un regime di tregua e, a dispetto del suo nome, la frontiera è una delle più militarizzate del mondo. Il presidente ha accettato di visitare, su invito dei sudcoreani, Camp Humphreys, 65 chilometri a sud di Seul, che è la più grande installazione militare americana nel Paese. ll nuovo presidente sudcoreano Moon Jae-in è ritenuto un «moderato» per quanto riguarda le relazioni tra le due Coree ma finora ha evitato di criticare l’approccio «machista» di Trump. In realtà, responsabili americani tra cui il segretario di Stato Rex Tillerson, hanno rivelato che contatti tra le due parti esistono, attraverso i canali informali. Recentemente il primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong – un amico sia degli USA che della Cina – ha approvato la tattica di Trump sostenendo che per tenere a bada Pyongyang sono necessari sia la «fermezza» che il «dialogo».
Ed è sul dialogo che punterà le sue carte l’uomo forte cinese Xi Jinping, reduce da un Congresso del Partito Comunista – il diciannovesimo – che lo ha incoronato leader supremo per altri cinque anni e che ha gettato le basi per un suo dominio sulla vita politica cinese per un periodo molto più lungo. Trump ha annunciato la sua volontà di discutere con Xi della questione nordcoreana. Rimane tutto da vedere se le discussioni sulla Corea del Nord lasceranno spazio a quelle sul commercio, un tema sul quale il presidente aveva fatto fuoco e fiamme durante la campagna elettorale. Quello della relazioni con la Cina è il tema sul quale l’ambiguità dell’Ammistrazione Trump ha raggiunto il punto più alto. Sembra sia radicata ai suoi massimi livelli la convinzione che la chiave per contenere Pyongyang sia nelle mani di Pechino. Una convinzione solo parzialmente giustificata dai fatti se si tiene conto di due circostanze: in primo luogo, Pechino ha un’alleanza militare con la Corea del Nord che ha una storia lunga e articolata – avrebbe mai Pyongyang avuto l’atomica senza la collaborazione di Pechino, e del suo altro alleato regionale, il Pakistan? – alla quale non intende rinunciare; inoltre, la Cina non è l’unico paese ad avere relazioni commerciali e storicamente salde con la Corea del Nord.
L’altro è la Russia, che potrebbe approfittare di eventuali passi indietro di Pechino per inserirsi nel gioco, dando fastidio sia alla stessa Pechino che a Washington. Con Trump, Xi Jinping giocherà la carta del dialogo, tentando di rilanciare i cosiddetti «six party talks», cioè gli incontri tra diplomatici di Corea del Nord, Usa, Cina, Corea del Sud, Russia e Giappone che sono interrotti dal 2009 e che sono più che altro un «contesto» nel quale i due veri avversari – nordcoreani e americani – possono parlarsi apertamente.
In Vietnam, dopo aver preso parte al vertice dell’APEC a Da Nang, Trump avrà colloqui ad Hanoi col presidente Tran Dai Quang che, con ogni probabilità, gli chiederà iniziative più decise sul Mar della Cina meridionale. In quest’area Pechino ha enormemente rafforzato la propria presenza negli ultimi anni, costruendo una serie di isole artificiali che ospitano basi militari. Per il presidente americano sarà una sfida anche l’ultima tappa, quella a Manila, dove si incontrerà con un uomo politico non molto diverso lui – l’anti-political correct per eccellenza Rodrigo Duterte. Il presidente filippino ha annunciato pochi mesi fa il suo «divorzio» dagli Usa e il suo nuovo «matrimonio» con Pechino. Nessuno infatti in Cina ha mai criticato la sua «guerra» contro i sospetti spacciatori di droga, che si è concretizzata in migliaia di esecuzioni extra-giudiziali. Ora pare che la vicenda di Marawi – la città del sud delle Filippine occupata per mesi da estremisti musulmani, che si è risolta solo grazie all’aiuto militare americano – gli abbia fatto almeno in parte cambiare idea.