Un governo italiano in perenne fibrillazione, con le due componenti, Movimento Cinque Stelle e Lega, l’un contro l’altra armati su molte questioni essenziali, con l’asimmetria dei consensi fra un leghismo trionfante e un grillismo in crisi, e un presidente del consiglio che cerca di farsi arbitro della situazione, si muove disordinatamente sulla scena internazionale. Da una parte conferma la sua vocazione euroscettica, il solo elemento sul quale le due parti concordano, dall’altra si fa protagonista di qualche significativa correzione di rotta.
Per esempio uno dei due vicepresidenti, il ministro dell’Interno Matteo Salvini, è volato a Washington dove si è fatto interprete di un’adesione totale all’ottica del presidente Donald Trump su molti temi, dall’immigrazione alla politica fiscale, dall’atteggiamento verso l’Europa fino al comune incoraggiamento di una hard Brexit. Implicita una sostanziale revisione della tradizionale posizione filo-russa, rispetto alla quale Salvini, che proclama l’Italia giallo-verde l’alleato più fedele dell’America trumpiana e lo stesso Trump un modello da imitare, si limita a insistere sulla inopportunità delle sanzioni. Dobbiamo evitare, ha detto agli interlocutori americani, di gettare la Russia nelle braccia dei cinesi.
Parole queste che l’altro dioscuro della scena politica romana, il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, non trova certamente di suo gusto, lui che è un difensore appassionato della «nuova via della seta», il vasto progetto di penetrazione politico-commerciale lanciato dalla Cina. Ma Di Maio, penalizzato dai sondaggi di opinione e dai risultati delle elezioni parziali che si succedono dopo il fiasco nelle regionali, ultimo il voto amministrativo in Sardegna, non può che abbozzare. Sente sul collo il fiato pesante di Salvini e teme che il leader leghista voglia capitalizzare il suo momento magico chiamando gli italiani al voto parlamentare anticipato.
È vero che l’alleato-rivale non perde occasione per rassicurarlo, ripetendo che il governo durerà tutti e quattro gli anni che ci separano dal termine fisiologico della legislatura: ma è chiaro che la posizione di forza della Lega, unita alle divergenze spesso sostanziali con i Cinquestelle, sembrano fatte apposta per spingere Salvini alla soluzione elettorale. Secondo alcune indagini demoscopiche, potrebbe addirittura vincere da solo, senza bisogno di tornare all’ovile del centro-destra né tanto meno di confermare l’alleanza attuale.
In questo contesto si colloca, tempestoso come sempre, il rapporto del governo di Roma con le istituzioni dell’Unione Europea. È il solo punto che continua a unire i due alleati di governo, ma con sfumature diverse. Come è suo costume, Salvini fa la voce grossa, sostiene che l’attuale dirigenza di Bruxelles è stata sfiduciata dal voto, invoca la necessità per l’Italia di stimolare la sua economia con un programma davvero trumpiano di forti sgravi fiscali, anche a costo di violare i parametri di Maastricht e il patto europeo di stabilità. Gli fa eco, con parole molto più pacate, Giuseppe Conte, che dalla scomodissima posizione di presidente del consiglio oscurato dall’ombra ingombrante dei suoi vice sostiene che l’Unione deve rinunciare alla priorità della finanza sulla politica. Quanto a Di Maio, di fronte ai reiterati inviti alla responsabilità finanziaria provenienti da tutti gli altri paesi membri se la cava con una battuta molto napoletana ma sostanzialmente evasiva: siamo persone responsabili, ma non siamo fessi.
Come se non bastasse l’annosa ruggine fra Roma e Bruxelles, il governo giallo-verde si trova a dover fronteggiare le riserve e le critiche dei due maggiori paesi membri dell’Unione. Un recente intervento del governo di Parigi ha impedito, per ragioni che sono subito state etichettate come stataliste e anti-italiane, la fusione di due colossi dell’automobile, Fca (a sua volta generata dalla fusione di Fiat e Chrysler) e Renault. Poiché c’è già un precedente, relativo a un progetto analogo nel settore della cantieristica navale, a Roma se ne deduce con una certa amarezza che i francesi non si fidano dell’Italia, analisi confortata da alcune uscite del presidente Emmanuel Macron. Del resto quest’ultimo non perdona ai Cinquestelle di avere corteggiato i suoi oppositori interni, i gilet jaunes, nonostante la loro inclinazione alle maniere forti, né ai leghisti la loro richiesta che la Francia faccia di più in materia di accoglienza dei migranti. Infine la relazione Roma-Parigi è intossicata dalla ben nota rivalità a proposito della Libia.
Anche la Germania è nel mirino delle polemiche governative italiane. Non soltanto perché come Paese egemone ha tanta parte nelle decisioni politiche dell’Unione, o perché ha ridotto a mal partito la Grecia obbligandola a una dolorosissima strategia di rientro dagli errori finanziari del passato, ma anche per una questione che paradossalmente proprio lo scoop di un giornale non certo vicino ai giallo-verdi, «La Repubblica», ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Si tratta dei cosiddetti dublinanti, cioè di quei migranti che in base all’accordo di Dublino vengono rispediti nel paese di primo approdo, che per evidenti ragioni geografiche s’identifica soprattutto con l’Italia, o la Spagna o la Grecia.
Di fatto Berlino ha approfittato largamente di questa possibilità, rimandando in Italia negli ultimi mesi alcune migliaia di profughi, spesso sedati per tenerli tranquilli. Alle proteste di Roma si risponde che la procedura è prevista da un patto che il governo italiano, a suo tempo guidato da Matteo Renzi, ha liberamente firmato assieme agli altri. L’opposizione, e in una certa misura anche i Cinquestelle, non mancano di far notare che tutto questo significa il fallimento della politica migratoria di Salvini.
Una politica contrastata di fatto dagli stessi paesi amici dell’attuale governo italiano. Perfino il quartetto di Visegrad (Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia), molto vicino a Salvini su temi come l’immigrazione o la flessibilità dei vincoli dell’Unione, sul primo punto rifiuta di partecipare alla redistribuzione dei profughi invocata da Roma, mentre sul secondo si allinea ai paesi virtuosi del Nord nel chiedere all’Italia di non compromettere con i suoi bilanci allegri la stabilità finanziaria europea. Per la Polonia, che si sente minacciata dalla Russia di Vladimir Putin, il premio di consolazione delle ultime sortite internazionali di Salvini, che hanno vistosamente modificato l’originaria posizione filo-Mosca.