«Disposto anche a sfidare la morte»

Ali è un rifugiato afghano. Da quattro anni vive in Svizzera. La storia del suo viaggio è esemplare e uguale a quelle di tanti altri profughi
/ 17.10.2016
di Luca Beti

Ali si arrotola un pantalone e mi mostra una cicatrice di una decina di centimetri sulla gamba destra. «La vedi? – mi chiede – me la sono procurata saltando da un cavalcavia sul confine con la Slovenia». Un volo di sei metri per sfuggire alla polizia che lo sta braccando. Un volo tra la vita e la morte: una siepe tra le corsie dell’autostrada attutisce l’impatto sull’asfalto, un cordolo gli lascia però un taglio profondo fino all’osso. «È stato terribile. È stato terribile», ripete continuamente. 

Ali ha 31 anni e da quattro, dal 2012, si trova in Svizzera. Cresciuto a Jaghuri, città di mezzo milione di abitanti, nella provincia di Ghazni, in Afghanistan, con due sorelle e due fratelli, da 16 anni vive lontano dal suo Paese. «Dei motivi della mia fuga non voglio parlare. Sono di etnia hazara e la nostra popolazione ha grossi problemi con i talebani che controllano i territori vicini alla mia città. Di notte passano di casa in casa e si prendono ciò che vogliono, anche la tua vita», mi dice prima di iniziare il racconto del suo viaggio.

È il 2000 quando Ali abbraccia per l’ultima volta la sua famiglia. Ha 15 anni. Parte senza passaporto e per undici anni vive nella clandestinità. Dall’Afghanistan raggiunge il Pakistan, dove rimane poche settimane, poi supera il confine con l’Iran. Per quattro anni lavora in una cava di granito «Un lavoro ben pagato», mi dice. Con i risparmi prosegue il viaggio. Valica la frontiera con la Turchia a piedi e in sella a un cavallo, arrampicandosi lungo i valichi impervi tra i due Stati.

Per Ali, la Turchia è solo un Paese di passaggio: è la porta per l’Europa. Vi trascorre il tempo necessario per raggiungere le coste che si affacciano sul Mediterraneo. «Sono i soldi in tasca a decidere il tempo che impieghi per raggiungere la tua destinazione. Se non ne hai, devi fermarti e cercare un lavoro», mi spiega. I trafficanti di uomini hanno contatti in tutti i Paesi e si passano i profughi come merce. Basta pagare per raggiungere la prossima tappa. E per lui, la prossima destinazione è la Grecia. 

«Io e altri tre afghani paghiamo un passatore; 400 dollari ciascuno. In macchina raggiungiamo la spiaggia, dove ci mostra la nostra piccola imbarcazione a remi e ci indica la rotta da seguire per raggiungere la Grecia», racconta. «Partiamo di notte, il mare è mosso e non arriviamo lontano. La barca si capovolge e finiamo in acqua. Ci salviamo in due, aggrappandoci a una corda annodata alla barca. Un compagno viene trascinato via dai flutti, l’altro batte violentemente la testa su uno spunzone di roccia, finisce sott’acqua e non riemerge più». 

Ali riprova una seconda volta con altri tre profughi, ripagando naturalmente il passatore. A metà traversata la loro barca è intercettata dalla polizia costiera turca che li costringe a tornare indietro. Ritenta una terza volta. «Sei disposto a tutto, anche a sfidare la morte, pur di continuare il tuo viaggio», ci dice mentre il suo sguardo si fa cupo e gli occhi si celano di angoscia. «Rimaniamo sulla spiaggia per tre giorni. Il cielo ci scarica addosso secchiate di acqua. Non abbiamo nulla da bere e da mangiare, ma la paura di essere intercettati dalla polizia turca ci inchioda sulla spiaggia.

Finalmente, il quarto giorno il tempo migliora. Partiamo alle dieci e trenta di sera». Ingoiati dalla notte, Ali e i suoi nuovi tre compagni remano verso le luci che intravvedono all’orizzonte. Dopo quattro ore, il faro della guardia costiera greca illumina la loro imbarcazione. «È stato terribile. Ci hanno preso e picchiati. Asif, il mio compagno afghano, ha ricevuto un pugno in pieno viso. Io ho ricevuto una serie di calcioni alle costole. Dopo aver perlustrato per una ventina di minuti il mare a caccia di altre imbarcazioni, i poliziotti ci hanno dato una nuova scarica di pedate e di pugni e hanno spezzato i nostri remi. Infine con un piede hanno allontanato la barca dal fianco della loro motovedetta e hanno lasciato che andassimo alla deriva».

Ali e i suoi compagni rimangono in balia delle onde, oscillando tra la vita e la morte, per circa sedici ore. Stremati dalla fame e dalla sete, doloranti per le botte, a turno uno rimane in piedi, di vedetta, per scorgere un’imbarcazione che li possa soccorrere. Alle otto di sera, finalmente, sono avvistati da un peschereccio turco. Poco dopo sono raggiunti da una nave della polizia turca che li riporta a terra. «Per quattro mesi avevo dei dolori lancinanti al costato ogni volta che muovevo il braccio sinistro», ricorda Ali.

Dopo essersi ripreso, riprova la traversata; questa volta con un’imbarcazione a motore e con altri 17 profughi. Il viaggio costa però tre volte tanto: 1200 dollari. Dopo tre ore di navigazione raggiunge l’isola di Kos. È finalmente in Grecia, ma a quale prezzo: ha rischiato più volte di affogare in mare, è stato preso a calci e ha speso oltre 2400 euro.

Sono già trascorsi sei anni dalla sua partenza dall’Afghanistan. È il 2006. Mentre l’Europa è in preda alla febbre del pallone per il mondiale di calcio in Germania, Ali continua a lasciarsi chilometri alle spalle. Ora prosegue a piedi. Ha speso quasi tutti i suoi risparmi in Turchia. «Sono davvero stato sfortunato: ho dovuto tentare quattro volte per raggiungere l’isola di Kos che dista si è no tre ore dalla costa turca», si rammarica. 

Da Patrasso raggiunge Atene. Nella capitale non trova lavoro o solo occasionalmente. Decide allora di proseguire il suo viaggio. Cammina di notte con altri profughi che seguono lo stesso itinerario. Raggiunge prima la Macedonia, poi la Serbia e infine la Bosnia ed Erzegovina. Si ferma alcuni mesi a Banja Luka. Poi supera il confine con la Croazia. A Kutina, una cittadina a circa una sessantina di chilometri dalla frontiera, trova gente per bene che lo aiuta. Dopo 3-4 mesi riprende il viaggio. Vuole arrivare in Slovenia. E ora Ali si fa di nuovo cupo in volto, si lascia cadere sullo schienale della sedia e lascia per un attimo che i ricordi riaffiorino alla memoria, nitidi come se fossero di ieri. «È stato terribile», inizia così. «Ho provato quattro volte, ma mi hanno sempre rimandato indietro. In taxi raggiungevo con altri profughi la frontiera slovena. Camminavo sempre di notte, senza luci per sfuggire ai controlli della polizia. Ma loro erano lì ad aspettarmi. Mi prendevano le impronte digitali e poi mi dicevano di tornare da dove ero venuto. La terza volta, un poliziotto corpulento – io pesavo poco più di 50 chilogrammi – mi ha riconosciuto e mi ha minacciato che m’avrebbe sbattuto in prigione per sei mesi se mi fossi fatto rivedere».

È un monito terrificante per Ali che per nulla al mondo vuole finire dietro le sbarre. Con la paura di essere braccato, si mette in viaggio da solo. Conosce i sentieri a memoria. Ma, inesorabili, le guardie di confine slovene sono lì ad attenderlo. Lui si mette a correre a più non posso. Su un cavalcavia gli sbarrano la via di fuga. È in trappola. L’unica possibilità di sfuggire loro è quella di lanciarsi sull’autostrada sottostante. «Con loro c’era un’interprete iraniana. Li ho avvertiti che mi sarei buttato se si fossero avvicinati. Si sono messi a ridere. Quando erano a circa 100 metri di distanza, mi sono gettato. Non avevo più nulla da perdere: avevo 19 anni ed ero pronto a morire». La siepe tra le corsie frena la caduta, si salva e si mette di nuovo a correre, incurante delle macchine che viaggiano a oltre cento all’ora sull’autostrada.

Solo dopo 3 ore di corsa si ferma a riprendere fiato. E solo allora si accorge di essersi ferito. La sua pantofola è impregnata di sangue. «È la fine, mi sono detto. Poi però ho ricordato il consiglio di un mio vicino di casa afgano. Ho preso una corteccia di un albero, ho strappato la maglietta facendone delle strisce e così ho medicato la ferita», racconta. Decide di tornare in Grecia, passando per la Serbia e la Macedonia. Stremato, con una gamba malconcia, lo stomaco sottosopra perché mangia poco e male, Ali capisce che non può più continuare il viaggio.

Ad Atene si presenta in un ufficio di un’organizzazione dell’ONU. Dopo tre settimane lo spostano a Larissa, poi a Elassona, in un centro profughi. Incontra altri afghani e trova lavoro. «Sgobbo in media 8-10 ore al giorno per 100 euro a settimana. All’inizio è stata molto dura, ma con il tempo la situazione è migliorata». Ali conosce una ragazza, se ne innamora e i due si vogliono sposare. Aiuta la sua famiglia a trovare un appartamento dignitoso e a proseguire il viaggio. Si indebita e dà loro buona parte dei suoi risparmi; in totale oltre 9000 euro. I due fidanzati si danno appuntamento a Colonia, in Germania.

Dopo sei anni trascorsi in Grecia, nel 2012 arriva il momento di riprendere il viaggio. Dà 4500 euro a un conducente di autocarro che gli promette di portarlo in Germania. Raggiunge il luogo dell’appuntamento alcune ora prima della partenza. Con lui viaggiano altri due afghani. I tre si infilano nel serbatoio di riserva del camion. L’aria entra da due aperture, che si possono aprire e chiudere dall’interno. «Per circa una trentina d’ore rimaniamo rannicchiati lì dentro, in posizione fetale. Non possiamo né muoverci, né sgranchirci le gambe, né mangiare. Soltanto bere quanto basta per non morire disidratati, per sopravvivere». 

Ali non sa quale strada abbia percorso l’autista e non sa nemmeno dove si trovi quando lascia il nascondiglio. Il camionista gli dice soltanto che è in Germania. È il solito trafficante di uomini, un farabutto senza scrupoli. Ali non sa ancora di essere a Chiasso. È il 13 aprile 2012. Piove, è freddo e Ali trascorre la notte in una toilette pubblica. Il giorno seguente, dopo aver girovagato per la città vecchia si incammina verso nord; vuole raggiungere Zurigo e poi proseguire il viaggio verso Colonia. Una pattuglia della polizia lo ferma e lo porta all’ufficio di registrazione di Chiasso. Da lì viene mandato a Basilea, poi al centro per richiedenti l’asilo Lindenegg a Bienne.

«Sono stati mesi difficili», continua Ali. «Chiamo in Germania. Il padre della mia fidanzata, di etnia tagika, mi dice che non avrebbe mai dato la figlia in sposa a un hazara. È una notizia che mi getta nello sconforto più nero». Ma non è tutto. Telefona in Afghanistan per avere notizie dei suoi cari. Gli dicono che la sua famiglia è partita, che si è rifugiata in Pakistan. «Li cerco da quattro anni, da quando sono partito dalla Grecia. Contatto conoscenti, ogni giorno vado a caccia di loro notizie in internet, sui media sociali. Mi basterebbe sapere se sono ancora vivi», dice con la voce rotta dalla disperazione.

Un istante dopo ritorna ad illuminarsi. In Svizzera, finalmente, la fortuna torna a sorridergli. Ottiene il permesso F. Inizia a correre. «È questa la mia chiave verso l’integrazione in un Paese che voglio conoscere e capire», mi spiega e lo fa mentre si aggiusta il berretto di swissski in testa. A Finsterhennen, in un villaggio nel Seeland bernese dove vive, conosce un gruppo di podisti. Grazie a loro trova lavoro: è magazziniere in una ditta di trasporti, la Marti Logistik. «A volte riaffiorano i ricordi del mio viaggio. È come se assistessi alle scene di un film irreale. Non mi sembra possibile di aver vissuto tutto questo», mi dice alla fine. E invece è tutto vero. Ali ha 31 anni e una cicatrice di circa 10 centimetri sulla coscia destra che gli ricorda il suo passato di profugo. Da 4 anni vive in Svizzera dove vuole rifarsi un’esistenza degna di questo nome.