«La morte di Al Zawahiri verrà spacciata per un trionfo dell’antiterrorismo. Ma questo tipo di narrativa nasconde a stento un’innegabile verità: che l’Afghanistan dei talebani serve da nascondiglio e rifugio per Al Qaeda». Bill Roggio, esperto di terrorismo e direttore del «Long war journal», ha sempre avuto pochi dubbi in proposito e, fatti alla mano, aveva ragione. Kabul un anno dopo la vergognosa e frettolosa ritirata degli americani somiglia in modo sempre più sinistro alla Kabul dei primi anni 2000 (ricordiamo che il 15 agosto 2021 la capitale è stata presa dai talebani). La Kabul delle donne rinchiuse nei burqa e all’interno delle loro case, la Kabul delle donne a cui non è permesso studiare né lavorare. Delle donne a cui è vietato allontanarsi dal domicilio per più di un limitato numero di chilometri senza un accompagnatore maschio. Kabul in cui, ancora una volta, l’unica musica a risuonare è la chiamata alla preghiera e il rumore di esplosioni e pallottole, Kabul senza più cinema o teatri, senza più film in tv.
Kabul senza più attrici o cantanti, Kabul senza sportive e con pochissimi sportivi rimasti. Kabul in cui i barbieri non possono più tagliare la barba ai loro clienti, in cui la gente ha fame. Kabul su cui regna la sola pace possibile: la «pax talebana», che somiglia tanto a quella di un qualunque cimitero. Quella Kabul in cui l’Occidente è entrato con una controversa decisione per combattere il terrorismo e che, vent’anni dopo, ha abbandonato accordandosi con gli stessi terroristi che aveva combattuto. E siglando vergognosi accordi di pace che prevedevano in pratica, per i talebani, un’unica condizione: che rescindessero i rapporti con Al Qaeda e che quindi l’Afghanistan non diventasse ancora una volta base privilegiata per il terrorismo internazionale.
A poco erano valsi i commenti della maggioranza, a poco erano valse prove sia visive che di intelligence da cui si evinceva che non solo Al Qaeda ma tutti gli altri gruppi jihadisti dell’area geopolitica erano vivi e vegeti e più felici che mai nel rinnovato paradiso per terroristi guidato ancora una volta da terroristi. Una campagna stampa gestita ad arte aveva fatto dei cosiddetti talebani 2.0 i «pupilli» di parte della stampa internazionale. I tristi figuri che siedono al governo erano stati invitati con tutti gli onori da vari governi occidentali per discutere di «diritti umani». I cui rappresentanti si dichiaravano «fieri» di sedere al tavolo delle trattative con un gruppo di tagliagole prezzolati. Come dire, invitiamo il lupo a trattare su Cappuccetto rosso.
Fino a che, siccome la presa di un terrorista internazionale non si nega a nessun presidente americano, un missile R9X, detto «missile ninja», ha centrato e ammazzato Ayman Al Zawahiri: l’uomo che, assieme a Osama bin Laden, aveva progettato l’attacco alle Torri gemelle. Al Zawahiri, ormai vecchio, malato e operativamente innocuo, è stato ucciso non in un rifugio tra le montagne, ma mentre affacciato al balcone si godeva il fresco del mattino in una graziosa villetta rosa pallido, sedici stanze appena, al centro di Kabul. Nel quartiere di Sherpur, il quartiere residenziale più esclusivo della città: dove, tanto per capirci, hanno casa l’ex-presidente Ashraf Ghani e Hamid Karzai. E la casa dove Al Zawahiri viveva sotto protezione era difatti di proprietà di Sirajuddin Haqqani. Haqqani è il ministro degli Interni dei talebani, il loro vice-premier ed è ancora sulla lista dei terroristi internazionali stilata dalle Nazioni Unite. Oltre a essere uno dei più feroci assassini a pagamento in circolazione e anche un’occasionale editorialista del democraticissimo «New York Times».
Morto Zawahiri è cominciato il secondo atto della farsa il cui primo atto si era consumato con l’uccisione di Osama bin Laden ad Abbottabad. Ci riferiamo ai comunicati emanati dal governo degli Stati Uniti e dal governo dei talebani, che si accusano reciprocamente di avere violato gli sciagurati accordi di Doha e una quindicina di regole del diritto internazionale. Circostanza resa assurda dal fatto che nei suddetti accordi non sono previste sanzioni per alcun tipo di violazione. La farsa si sta sviluppando a mezzo stampa e nelle segreterie di alcuni governi. Perché, come sempre quando si parla di terrorismo, tutte le strade portano invariabilmente a Islamabad. Basta provare a connettere i punti.
Pare che il drone che ha centrato Al Zawahiri sia partito da una base pakistana: circostanza che il governo trova difficile da spiegare ai suoi cittadini, così come aveva trovato impossibile spiegare l’uccisione di Osama bin Laden compiuta dagli americani su suolo pakistano. Perché, anche se il drone non è partito dal Pakistan, agli americani è stato garantito lo spazio aereo per compiere l’operazione. Al Zawahiri e famiglia, fino a non molto tempo fa, erano di certo in Pakistan e sono stati portati a Kabul, secondo il presidente americano Joe Biden, da qualche mese. Affidati alle cure di Sirajuddin Haqqani, uomo dei servizi pakistani: per chi non lo ricordasse, gli Haqqani (così come i talebani originari) non sono afghani ma vengono dal Pakistan, da cui sono stati addestrati, nutriti, allevati e usati come mezzo infame di politica estera. Logistica e progettazione dell’operazione che ha portato alla morte di Zawahiri hanno richiesto mesi e di certo degli uomini sul campo. All’interno dei talebani è in atto da mesi una guerra tra la fazione degli Haqqani e quella guidata tra gli altri dal figlio del mullah Omar. Qualche giorno prima dell’uccisione di Zawahiri, il generale Bajwa, capo dell’esercito pakistano, aveva fatto una telefonata a Wendy Sherman, una dei sottosegretari di stato americani. La telefonata, trapelata con uno scoop del «NikkeiAsia», aveva come oggetto un prestito di 1,2 miliardi di dollari che il Pakistan deve assolutamente ottenere dal Fondo monetario internazionale (Fmi) se non vuole ritrovarsi come lo Sri Lanka in bancarotta. Perché un generale, e non ad esempio il ministro delle Finanze o quello degli Esteri, chiama una sottosegretaria?
In Pakistan e dintorni i punti potrebbero connettersi così: Bajwa e il suo governo, con la connivenza di Haqqani e dei suoi, hanno «venduto» Al Zawahiri agli Usa in cambio del prestito dell’Fmi. Zawahiri è stato ammazzato a Kabul perché non fosse il secondo esponente di spicco di Al Qaeda ad essere ucciso in territorio pakistano, con tutte le conseguenze del caso. Gli americani ottengono il loro trofeo, i pakistani prendono i soldi… Non sarebbe la prima volta che le cose vanno così tra Stati Uniti e Pakistan, e non sarà l’ultima. I talebani si liberano dello scomodo fardello di un poco carismatico burocrate alla guida di Al Qaeda e hanno una scusa ulteriore per continuare a non mantenere le pur labili promesse dell’accordo di pace. Mano libera ai jihadisti dunque, quelli veri, gestiti da loro e da Islamabad. Fino alla prossima volta.