Diario dalla Palestina

Hebron e Betlemme - 2. parte – Visita a uno dei luoghi più sacri del mondo dove tutto è all’insegna di una convivenza tesa e alla città indicata dai Vangeli e dalla tradizione cristiana come il luogo di nascita di Gesù
/ 22.01.2018
di Federico Rampini

«Di che religione sei?»

Se rispondi cristiano sei fortunato: puoi passare.

Non capita spesso di essere interrogati così. A seconda della tua religione, puoi entrare oppure vieni respinto dalle guardie. È la regola ferrea che vige a Hebron, in uno dei luoghi più sacri del mondo. È sede della Tomba dei Patriarchi e delle Matriarche. Attaccate l’una all’altra ci sono una sinagoga e una moschea entrambe dedicate ad Abramo, che come tutte le figure bibliche è venerato dalle tre religioni monoteiste. I due luoghi hanno accessi limitati, per l’appunto: solo i cristiani possono visitarle entrambe. Se sei musulmano non puoi vedere la sinagoga, e se sei ebreo la moschea ti è preclusa.

Da lì in poi, tutto a Hebron è all’insegna di una convivenza tesa, conflittuale, talvolta con fiammate di violenza. È dal 1929 che questo fu l’epicentro di scontri sanguinosi fra i primi ebrei sionisti e la popolazione araba locale. Oggi Hebron ti appare a tratti come una città in guerra, altrove come una città-fantasma. I posti di blocco, i fili spinati, si alternano con interi isolati di case in stato di abbandono, come se ci fosse stata un’evacuazione improvvisa. Che tristezza: il suo centro storico sarebbe un gioiello del turismo, assomiglia alla città vecchia di Gerusalemme ma è ancora più raccolto, di una bellezza raffinata. Conserva qualche vestigio della vocazione antica: Hebron fu città di ricchi mercanti, con una tradizione speciale nella decorazione delle ceramiche e nei tessuti.

Il centro storico ha ancora delle bancarelle ma è semi-deserto, il clima da stato d’assedio tiene lontani i turisti. E in quel centro storico vedi anche un segno visibile della convivenza conflittuale: i mercanti delle bancarelle hanno dovuto proteggersi con delle alte reti, dal getto di immondizia che i coloni israeliani gli rovesciano addosso dalle finestre sovrastanti, per spregio. Incollati gli uni agli altri, nemici che si stanno addosso col fiato sul collo. Questa di Hebron è la versione estrema di una realtà che t’insegue appena esci da Gerusalemme. La distanza tra gli insediamenti di coloni israeliani (per lo più illegali in base al diritto internazionale) e i territori palestinesi occupati, è microscopica. In questo minuscolo lembo di terra che è Israele, tutti stanno incollati a tutti. E le frontiere sono un groviglio, s’intrecciano e si confondono, un labirinto che è impossibile disegnare su una carta, tanto meno capire, se non ci vivi dentro sei disorientato. Per un attimo gli insediamenti dei coloni israeliani sono alla tua destra e i palestinesi a sinistra, 500 metri più avanti è il contrario. Gli uni e gli altri separati ora da alti muri, ora da fili spinati, posti di blocco, videocamere, cartelloni con divieti di attraversamento. Un coacervo assurdo. Hebron ufficialmente ha 215’000 abitanti palestinesi e solo un migliaio di coloni israeliani (se non sono aumentati nel frattempo), ma la presenza di questi ultimi nel centro storico trascina con sé la militarizzazione.

In questo clima teso incontro a due riprese degli italiani non turisti, impegnati a vigilare sul rispetto dei diritti umani. Uno è un carabiniere in borghese, in servizio come osservatore insieme con una rappresentante di una Ong scandinava. La sua sede precedente era sul lago di Garda. Si è portato volontario, è qui da un anno e dice: «Per quanto avessi studiato per prepararmi a questo incarico, per quanti libri e giornali avessi letto, finché non t’immergi qui dentro non hai la più pallida idea della situazione». Disarmato, provvisto solo di una radio ricetrasmittente con la sede Onu più vicina, racconta di essere continuamente preso a partito ora dagli uni ora dagli altri. «Se vigili sul rispetto dei diritti sei sempre scomodo, una volta sono gli israeliani che ci considerano delle spie, la volta seguente i palestinesi ci accusano di essere venduti all’Occidente».

Un altro italiano che incontro porta la divisa della Croce Rossa, è un giovane criminologo. Anche lui ha un compito ufficiale di osservatore. Vedo coi miei occhi il trattamento che gli infliggono i soldati israeliani. Mentre io col mio passaporto americano e la mia religione cristiana entro ed esco dove mi pare, lui viene bloccato continuamente, ogni pretesto è buono per contestare la validità dei suoi documenti. Lo vedo negoziare con una pazienza infinita: è chiaro che è abituato. Sia lui che il carabiniere mi chiedono di non fargli foto, di non trascrivere i loro nomi, di non pubblicare video del nostro incontro su Facebook. È gente seria, sono qui per fare un lavoro umanitario difficile e ingrato, non sono in cerca di pubblicità o di fama sui social.

«Contrariamente a quanto pensano tanti tra voi occidentali – mi dice Mazin Qumsiyeh – questa è una terra di pace. Dopo le crociate, per secoli abbiamo accolto un po’ tutti: ebrei cristiani musulmani. E abbiamo vissuto in pace, davvero, per la maggior parte della nostra storia millenaria. Dunque passerà la fase attuale, e alla fine sarà stata una parentesi breve».

In mezz’ora di auto ho lasciato Hebron e sono arrivato a Betlemme. Ho fatto la visita di rito al Muro di Betlemme, alto e sinistro. Dolorosa barriera quotidiana per i palestinesi di qui; luogo di pellegrinaggio per turisti o artisti come Bansky che ne hanno fatto una «tela» per i graffiti di protesta. Chi mi parla si definisce «un beduino nel cyberspazio», nomade tornato in patria dopo una brillante carriera accademica negli Stati Uniti. Mazin Qumsiyeh, 60 anni, in America andò a prendersi una laurea in biologia molecolare e un dottorato in citogenetica. Per anni ha insegnato a Yale, dove ha conosciuto sua moglie, scienziata americana di origine cinese. Poi ha sentito il richiamo della foresta, o meglio del deserto: l’impegno per la causa del suo popolo. Ha doppia cittadinanza, americana e «palestinese con passaporto israeliano». «La prima forse aiuta a farmi liberare quando mi arrestano durante le manifestazioni. La seconda limita i miei movimenti: quando sul passaporto israeliano c’è scritta l’origine palestinese, quasi tutte le frontiere si chiudono». Lo incontro in un luogo improbabile, il Museo di Storia Naturale della Palestina, che lui ha creato in una villetta di Betlemme.

Siamo in quattro visitatori (la mia famiglia), lui ci dedica un pomeriggio per spiegare quello che sta facendo. Usa il linguaggio statistico-probabilistico dello scienziato per analizzare freddamente il dramma del suo popolo. Abbraccia il credo ambientalista per spiegare la centralità della terra, e come un giorno gli israeliani dovranno cambiare strada anche per l’impatto del cambiamento climatico oltre che della demografia. Gioca con la storia degli Stati Uniti per decifrare le origini del patto tra la destra Usa cristiano-repubblicana e Netanyahu. Cominciamo quindi dal calcolo delle probabilità, che lui da bravo prof disegna con delle curve: al centro la gobba dove si addensano gli eventi più frequenti, alle estremità le code sottili, gli scenari più rari e inusuali. «Dunque su una punta c’è il genocidio degli indiani d’America o degli aborigeni d’Australia. I palestinesi potrebbero fare la stessa fine, schiacciati dall’invasione dei coloni fino all’annientamento? È possibile. È poco probabile. All’estremità opposta c’è l’Algeria. Il popolo invaso caccia via i coloni, compresi i pieds noirs nati in Algeria che non avevano radici in Francia. Possibile. Improbabile anche questo. In mezzo c’è una vasta serie di varianti intermedie. Il Sud Africa è un esempio di transizione abbastanza pacifica verso una democrazia basata sul principio una testa un voto».

Non deflette da un’analogia che lui considera obbligatoria, fra sionismo e colonialismo. È quest’analogia che lo porta continuamente a incrociare la storia della sua terra d’origine con quella della sua patria d’adozione. Tra le immagini che mi proietta sullo schermo c’è il celebre dipinto allegorico del Manifest Destiny: la nazione americana vi appare come una dèa gigantesca, seguita dal popolo dei coloni bianchi, che avanza inesorabilmente e fa arretrare i nativi. Qumsiyeh non è certo l’unico né il primo a sottolineare le affinità. Da una parte e dall’altra. Il fondatore del movimento sionista, Theodor Herzl, era convinto della missione civilizzatrice degli ebrei. Era fiducioso che le popolazioni arabe della Palestina, finalmente beneficiate dal progresso, avrebbero ringraziato i coloni. Speculare è l’evoluzione ideologica che negli Stati Uniti ha portato i protestanti evangelici – un tempo anti-semiti virulenti – ad innamorarsi dell’idea che Netanyahu stia realizzando alla lettera le profezie bibliche. Il popolo eletto ha la sua terra.

La questione della terra: Qumsiyeh è convinto che sia un altro legame profondo, viscerale, tra sionismo e Manifest Destiny. Proprio mentre lo visito a Betlemme, negli Stati Uniti l’attenzione sul tema viene rilanciata dall’opera di un autorevole storico-geografo, Gary Fields (Enclosure: Palestinian Landscape in a Historical Mirror). Il paragone è con episodi precedenti di esproprio massiccio delle terre. In Inghilterra il capitalismo moderno nacque togliendo ai contadini le terre di pascolo condivise («commons»). In America i coloni bianchi non riconoscevano le forme «arcaiche» di comproprietà delle terre degli indiani, li cacciavano o li costringevano a firmare contratti-capestro. L’esproprio di terre palestinesi è avvenuto talvolta con un pretesto simile: i cactus che segnalavano i confini degli appezzamenti sotto l’impero ottomano non erano giuridicamente validi per degli occidentali. Manifest Destiny. Ma quanto a lungo Netanyahu può tenere Mazin Qumsiyeh e quelli come lui in un apartheid non dichiarato, inseriti dentro la fiorente economia israeliana, e con la metà dei diritti?