La prima sorpresa è all’atterraggio. Mia moglie era stata in Israele una volta sola, 38 anni fa. Conservava un ricordo allucinante dei controlli di sicurezza: lunghi e severi interrogatori ai passeggeri in arrivo, una perquisizione dei bagagli, guai ad avere un tubetto di dentifricio, l’addetto alla sicurezza te lo spremeva davanti agli occhi. Io c’ero stato ben più di recente ma sempre al seguito di presidenti americani; quindi presumevo di aver goduto di un trattamento privilegiato, dentro la carovana della Casa Bianca. Dunque eravamo preparati al peggio. E invece l’aeroporto Ben Gurion ci ha lasciati scivolare via senza controlli particolari, anche la formalità del visto è stata veloce, l’esame del passaporto è passato in un lampo, nulla a che vedere con le file estenuanti a cui viene sottoposto un turista in arrivo al JFK di New York. Primo mito infranto: Israele non ti accoglie come un paese in stato di assedio. Non lo è.
La decisione di fare questo viaggio per me aveva un significato particolare. L’ultima volta ero stato a Gerusalemme seguendo Donald Trump nel suo primo viaggio all’estero. Maggio 2017. La tappa precedente l’avevamo fatta a Riad dove era sbocciato l’idillio fra questo presidente e la monarchia saudita. Ma nessuno immaginava la «rivoluzione» del principe Mohammad bin Salman. O la sconfitta dell’Isis in Siria, con il conseguente ritorno in forze della Russia in quell’area. O le rivolte in Iran. L’impatto di Trump in Medio Oriente ancora non è chiaro ma potrebbe essere significativo. Tornare per una decina di giorni in Israele senza i vincoli del lavoro al seguito di un presidente americano, mi attirava.
Poi c’era stata, alla vigilia della nostra partenza dagli Stati Uniti, la mossa su Gerusalemme. Il riconoscimento americano che quella è la capitale d’Israele. Per certi versi un atto dovuto: il Congresso di Washington votò in tal senso nel 1995. Oppure un’ovvietà, visto che Parlamento e governo si trovano a Gerusalemme e non a Tel Aviv. Per altri versi l’annuncio di Trump era stato una bomba. La stragrande maggioranza dei governi mondiali, compresa l’intera Unione europea, rimane fedele a un principio: lo status di Gerusalemme non può essere deciso finché non c’è un accordo di pace con i palestinesi che sistemi tutte le questioni territoriali. Punto di partenza dovrebbero essere i confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni (1967) e quindi il futuro Stato palestinese dovrebbe avere Geusalemme Est come capitale. Inoltre lo statuto di Gerusalemme è gravido di significato per le tre religioni monoteiste che se la contendono: l’ebraica, l’Islam, i cristiani. Da New York dove avevo seguito lo strappo di Trump, l’impressione era di un finimondo. Un’organizzazione palestinese, Hamas, aveva annunciato «la Terza Intifada» (rivolta), i media descrivevano una situazione esplosiva. Con mia moglie e i miei figli, ci eravamo interrogati sul da farsi. Molti ci consigliavano di cancellare il viaggio. Per fortuna non lo abbiamo fatto.
Tel Aviv ci ha accolto calorosamente, e non solo per il clima ben più mite dell’inverno nordamericano. È la città più emblematica del volto che Israele vuole esibire per sedurre gli investitori stranieri. Giovane, eccitata, mondana, modaiola. Piena di locali dove si mangia e si beve, si ride e si balla fino a tarda notte. Un po’ Miami e un po’ Barcellona, un po’ Brooklyn e un po’ Rio. Bruttissima dal punto di vista architettonico: si salvano solo l’antica Jaffa che fu un porto pre-romano e conserva un’impronta araba; e il quartiere Bauhaus dove ebrei tedeschi in fuga dalle persecuzioni portarono lo stile architettonico degli anni Trenta. Per il resto, orridi grattacieli costruiti sulla spiaggia proprio come in Florida. Folle di runner ciclisti e surfisti. In questo anche californiana, perché gli stessi ragazzi che corrono e fanno surf, o a sera tarda si divertono nei mille ristoranti, li ritrovi nelle start-up del miracolo tecnologico israeliano. «Nazione start-up», ama definirsi oggi Israele, divenuto uno dei poli più avanzati dell’innovazione tecnologica. Non è solo marketing. Al Nasdaq, la Borsa americana dove si quotano le aziende hi-tech, ci sono più società israeliane di quante ne abbia l’intera Unione europea.
Tel Aviv è anche città laica, dove il sabato ci sono tanti negozi aperti e in quanto a ristoranti l’unico rischio è il tutto esaurito, troppe prenotazioni. Ma proprio per questo Tel Aviv sta ad Israele un po’ come New York sta all’America: non è rappresentativa. Gli equilibri demografici, ideologici, valoriali, si sono spostati altrove. La religione che a Tel Aviv è una presenza fra tante altre, non particolarmente invasiva o ingombrante, detta legge in molte altre aree del paese. Tel Aviv è l’eccezione, non la regola.
Spostarsi a Gerusalemme è un viaggio breve (un’ora di autobous, 25 minuti quando entrerà in funzione la nuova ferrovia veloce) ma è come trasferirsi in un paese diverso. Il fascino di questa città è formidabile. Quando ci sei, ti prende allo stomaco. Perfino Roma, Città Eterna per definizione, non compete alla pari: qui ci sono tre religioni che hanno messo radici profonde e inestricabili tra loro, hanno impresso strati di paesaggio e di storia. La prima di queste religioni in ordine di nascita, con i «rotoli del Mar Morto» scoperti nel deserto del Negev viene fatta risalire a otto secoli prima di Cristo, quando neppure Roma esisteva. Solo i cinesi possono vantare una continuità così antica nella loro civiltà, e non è un caso se ne incontro tanti che visitano Gerusalemme. La potenza simbolica di Gerusalemme è tale, che per alcuni visitatori è insopportabile. Esiste una «sindrome di Gerusalemme», patologica, per cui ogni anno qualche visitatore viene ricoverato in stato confusionale, convinto di essere un profeta o che l’Apocalisse sia imminente. Non scherzo.
Io l’avvicino gradualmente, da lontano. Un approccio classico, la più tradizionale delle vedute d’insieme, è dal Monte degli Ulivi dove Gesù Cristo avrebbe passato l’ultima sera della sua vita nell’orto del Getsemani. Da lì hai una prospettiva sull’immenso cimitero ebraico sottostante, seguito poi da un cimitero islamico: quasi una metafora di una città che ha fatto scorrere tanto sangue in nome di Dio. Più in là c’è il gioiello celebre, il monte che sorregge il duomo dorato costruito da Solimano il Magnifico, da dove Maometto sarebbe asceso in cielo. E poi la terza moschea più importante per i musulmani dopo Mecca e Medina. E la Chiesa del Santo Sepolcro. Ma al Monte degli Ulivi è vicina un’immensa costruzione moderna, della Chiesa dei Mormoni: dallo Utah a qui, buoni ultimi, anche loro hanno sentito l’insopprimibile esigenza di esserci.
Qualche giornale aveva descritto una Gerusalemme piena di manifesti che inneggiano a Trump. Dopo lunghe ricerche, con fatica ne trovo un paio, non molto visibili. In generale, l’effetto-Trump che sembrava tremendo da lontano, è pressoché inesistente. Gli israeliani per lo più lo approvano ma considerano che quella sua dichiarazione non fa che riconoscere una realtà. Le proteste palestinesi al nostro arrivo sono già finite. Come noi tantissimi turisti non si sono fatti impressionare dagli annunci della Terza Intifada. La città trabocca di visitatori, il boom degli arrivi quest’anno (+20%) è in netto contrasto con quel che accade nei paesi vicini. La paura di attentati ha ridotto il turismo in Egitto Tunisia Turchia. In Israele no, anzi.
Gerusalemme come Tel Aviv colpisce per la rilassatezza, la normalità dei controlli di polizia. Per chi arriva da città blindate per prevenire gli attentati come New York, Londra, Parigi o Bruxelles, i controlli di sicurezza israeliani non sono appariscenti. C’è più polizia in divisa sotto casa mia a Manhattan che nel centro di Gerusalemme. Le spiegazioni variano a seconda delle fonti interrogate. C’è chi sottolinea il salto tecnologico israeliano, con videocamere onnipresenti. C’è chi ricorda la militarizzazione ormai «normale» (in visita-premio ai monumenti storici sfilano gruppi di militari di leva con mitra a tracolla) e l’addestramento a intervenire nelle emergenze da parte dei civili, spesso anch’essi armati. C’è chi evoca un altro paradosso: il governo di destra guidato da Netanyahu mantiene una cooperazione costante con le forze dell’ordine palestinesi, interessate a evitare gli attentati.
Sono partito dagli Stati Uniti prima di Natale in una situazione di isolamento e condanna verso Trump dopo il riconoscimento di Gerusalemme. Da Israele devo considerare una prospettiva diversa. Nel frattempo non è nei territori palestinesi bensì in Iran che è esplosa la rabbia della società civile. La novità sembra convalidare le accuse di Trump al regime degli ayatollah. I manifestanti scesi in piazza nei giorni scorsi accusano la classe dirigente di foraggiare gruppi armati in Siria e in Libano, mentre la situazione economica iraniana resta pessima, con inflazione e disoccupazione ai massimi. In poche settimane a cavallo dell’anno nuovo la percezione sembra capovolta. Invece dell’isolamento di Trump, è evidente la terribile solitudine dei palestinesi. L’Arabia saudita che era uno dei pilastri a loro sostegno, ha espresso una condanna puramente rituale contro le parole di Trump su Gerusalemme.
Nella realtà continua a consolidarsi la triangolazione fra Trump, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, e l’uomo forte del nuovo corso saudita Mohammad bin Salman. Tutti d’accordo nel considerare l’Iran il nemico numero uno in quest’area del mondo. Il sostegno saudita ai palestinesi è sempre più evanescente, la loro causa ha perso priorità anche in altre aree del mondo arabo. Netanyahu approfitta di questi rapporti di forze per rafforzare lo status quo. Ma la seconda parte del mio viaggio, nei territori occupati, mi confermerà quanto lo status quo sia insopportabile, inaccettabile, immorale.