Diana, Boris e la nostalgia canaglia

Regno Unito – «The Crown» serve anche a ricordare al Paese quanto possano essere brutali i conservatori quando si stancano di un leader che li sta portando sulla strada sbagliata e che la stampa definisce «unfit»
/ 30.11.2020
di Cristina Marconi

I britannici stanno ancora parlando di lei, di Diana. Sui giornali, in televisione, al supermercato: dove ti giri c’è la sua zazzera bionda da ragazzina, che sia l’originale oppure quella di Emma Corrin, che in «The Crown» ne ha sapientemente riportato in vita lo sguardo inquieto, la perenne richiesta di attenzione. A quasi un quarto di secolo dalla morte, ci sono ancora questioni aperte che la riguardano e di cui si discute con un sinistro senso di urgenza. È vero che la BBC la ingannò e che il giornalista Martin Bashir giocò con le sue paranoie per ottenere la famosa intervista del 1995? Cosa pensano davvero i figli di «The Crown»? Carlo è stato davvero così insensibile, Elisabetta così distratta?

Il Regno Unito si sta cullando in una fantasia nostalgica che ancora non è arrivata al suo capolinea: la quarta stagione della serie Netflix ci lascia con Diana ancora viva, libera da pizzi e colletti da ingenua, decisa a trovare la sua strada. Siamo sospesi in un mondo senza conseguenze in cui tutto è ancora possibile, in cui c’è una donna forte e ancora giovane al comando – anzi due, anzi tre, anche se la più controversa è stata appena fatta fuori da Downing Street – e non nella realtà di un Paese colpito da una pandemia, con un leader eletto da meno di un anno e già logoro e con davanti un enorme passaggio esistenziale di cui si è molto chiacchierato e poco discusso seriamente: la Brexit.

A riprova di quanto il tema sia serio, a Diana ha dedicato un pezzo anche «The Economist», nella rubrica di politica Bagehot. «Il paese sta indubbiamente vivendo con la sua eredità politica almeno quanto con quella della Thatcher», afferma il settimanale. E quale sarebbe questa eredità? «Il genio di Diana è stato quello di mischiare due delle forze più profonde della politica moderna, ossia le emozioni e l’anti-elitismo, in un potente cocktail populista», preparando il terreno a tutti quelli che negli ultimi decenni hanno dato un seguito pratico a questa intuizione anti-intellettuale. Lei, figlia dell’aristocrazia più antica, nobildonna vissuta negli agi anche dopo il divorzio da 17 milioni di sterline, è stata uno «dei maestri moderni della politica delle emozioni», come quando in un’intervista alla BBC, discussa in questi giorni manco fosse stata trasmessa ieri sera, aveva detto, con formula immortale, di voler diventare la «regina dei cuori della gente».

«The Economist» non è però tenero nel suo giudizio sull’eredità di Diana: va bene l’informalità e la capacità di parlare alle emozioni delle persone in modo diretto, come il baldo (ma competente) Tony Blair che diceva a tutti «chiamami Tony», ma alla fine gli eredi della principessa del popolo sono stati soprattutto i Brexiteers, i figli dell’élite che riescono a passare per amici del popolo e che davanti a qualunque tentativo di frustrarne i desideri, sapientemente alimentati, gridano al complotto e infangano il lavoro di chi fa leva sulla testa, il dettaglio e perché no la forza della tradizione, cruciale in un Paese che non ha una Costituzione scritta.

Negli ultimi quattro anni chiunque si sia messo di traverso, anche solo con una semplice osservazione sulle procedure o sui tempi, al desiderio di uscire dall’Unione europea è stato accusato di essere un «nemico del popolo» o un remoaner, ossia un lamentoso nostalgico del remain. «Usando i sentimenti del popolo come carburante per la sua straordinaria carriera, la principessa Diana ha rotto la valvola di sicurezza» che teneva le istituzioni al riparo dalle passioni e «il Regno Unito dovrà vivere con le conseguenze del populismo emotivo che ha contribuito a liberare per gli anni a venire». Eredità a dir poco pesante.

Che Diana sia una delle sante patrone del populismo è possibile, e forse c’è il suo zampino dietro alla trasformazione dei britannici da popolo imperturbabile e stoico a comunità desiderosa di vedere una Royal Family più umana e palpitante, di avere politici più vicini alla gente e meno «esperti». Quello che è certo è che il Paese tra un mese uscirà dall’Unione europea senza che il progetto abbia guadagnato nulla in termini di chiarezza da quando, il 23 giugno del 2016, ha suscitato l’entusiasmo del 52% degli elettori. E lo farà guardando al passato, non certo a un futuro che, complice anche una pandemia in cui l’idea di Brexit si è ulteriormente liquefatta, non può non terrorizzare. I protagonisti di quella stagione sono usciti di scena: colui che rivolse una domanda tanto vaga agli elettori, David Cameron, si dimise subito, seguito da una Theresa May colpevole di aver cercato goffamente di definire i termini del problema.

Nigel Farage, leader dello Ukip e vincitore morale di una battaglia viscerale e distruttiva, si occupa ormai nel tempo libero di fomentare il risentimento contro il lockdown. L’unico con un progetto in testa, ossia Dominic Cummings, mente dietro la campagna del Vote Leave e autore della vittoria elettorale del 2019, è stato visto portare via gli scatoloni (e molti segreti) da Downing Street. Rimane solo Boris Johnson, ormai ridotto all’ombra di se stesso.

Che fosse auspicabile o meno, questa sinfonia degli addii sottrae però ai sostenitori della Brexit i presunti condottieri e, peggio ancora, agli spettatori più scettici la chance di vedere qualcuno amministrare la confusione che è stata creata. Quando Johnson, consigliato dalla sua fidanzata Carrie Symonds e dalla sua nuova addetta stampa Allegra Stratton, ha deciso di cercare di cambiare musica dopo un anno disastroso, sapeva di avere poche frecce al suo arco e ha rinunciato a un consigliere troppo spigoloso e controverso per cercare di salvarsi dalla resa dei conti che appare inevitabile. I Tories non lo ascoltano più, la comunicazione sulla pandemia è stata caotica e le infrazioni teatrali commesse da Cummings senza pentimento alcuno gli sono costate credibilità e capitale politico. Per evitare di sbagliare, Johnson parla poco, in attesa di avere buone notizie da dare come ad esempio la distribuzione del vaccino per il Covid, nella flebile speranza di tornare a brillare nel ruolo del premier ottimista da tempo di pace che aveva sempre sperato di avere.

Intanto Rishi Sunak, il cancelliere bravo e carismatico che molti vedrebbero bene a Downing Street, ha il ruolo – bello o brutto, ma senz’altro importante – di dire al Paese che l’economia è in pericolo e che una contrazione del Pil dell’11,3% non si vedeva da trecento anni, ma che le cose potrebbero andare ancora peggio senza un accordo di libero scambio con la Ue. Dalle nebbie di quattro anni e mezzo di dibattito sterile, è emersa questa figura giovane e responsabile, sorprendentemente Brexiter (o forse troppo astuto per schierarsi, visto che il referendum non è mai finito), con la sua dose di cattive notizie e ma anche di realismo, competenza, piglio fattivo. Non del tutto dissimile da quello che dall’altra parte dimostra Keir Starmer alla guida del Labour. Così diversi da Boris Johnson, che ormai, oltre ai deputati, ha quasi l’intera stampa a sfavore.

Non passa giorno senza che «The Times», quotidiano conservatore di casa Murdoch, accolga un commento scorticante sull’inadeguatezza del premier. Il rispettatissimo Martin Wolf su FT ha recentemente scritto che «non è un uomo serio» ed è «improbabile che arrivi mai a governare con competenza», anche se il suo posto nella storia ce l’avrà per «aver rotto cose grandi che non possono essere aggiustate». E addirittura «The Spectator», di cui Johnson è stato direttore, scrive che il «primo ministro è nudo», come il re della favola. L’unico beneficio del dubbio che gli si possa concedere è che non si sia mai ripreso davvero dal Covid. Ma «è quello che è e non è all’altezza del suo posto», sentenzia il settimanale.

Insieme alla grazia di Diana e alla dedizione di Elisabetta al suo ruolo, «The Crown» è servito anche a ricordare al Paese quanto possano essere brutali i conservatori quando si stancano di un leader indebolito o che li sta portando sulla strada sbagliata: le premesse ci sono perché uno scenario del genere si possa ripetere, a meno di colpi di scena che riportino tutti in una dimensione nuova e che il futuro si faccia strada senza bisogno di un cambio della guardia.