«Diamoci al verde!»

Fili di seta, la mania per l’ambientalismo e il riciclo dilaga tra i ceti alti di Nuova Delhi
/ 17.07.2023
di Francesca Marino

Verde, signori. «Verde te quiero verde», scriveva Federico Garcia Lorca. Verde, come il colore che imperversa a Delhi già da qualche anno. Verde come i verdissimi parchi, gli alberi e i giardini di cui la città è piena. Verde come l’invidia di una romana (chi scrive) che vede Delhi molto più pulita di Roma. Gli abitanti di Delhi, come Garcia Lorca, amano il verde: verde come la febbre ecologista che, al grido di «Going green!», ha ormai preso d’assalto la città. «Diamoci al verde!». E di conseguenza il riciclo, l’ecologia, l’ambientalismo sono diventati ormai parte del corredo genetico cittadino. Niente a che vedere, certo, con i patetici cartelli che 15 anni fa hanno cominciato a punteggiare le prime strade a scorrimento veloce e le circonvallazioni di Delhi, e che più che comandi parevano una preghiera: «Clean Delhi, green Delhi» dicevano, incoronati alla base da cumuli di cartacce e monnezza assortita (vedi foto). E niente a che vedere anche con i primi, timidi tentativi di riciclo, quando ormai molti anni fa le autorità cittadine avevano lanciato la raccolta differenziata: pattumiere rosse per l’umido, blu per tutto il resto. Peccato che l’operatore ecologico fosse sempre il solito omino con il suo buon vecchio carretto in cui svuotava allegramente tutto il contenuto dei bidoni, tutto assieme. E quando una mia amica gli aveva strillato contro facendogli una lezioncina sulla raccolta differenziata, il povero diavolo l’aveva guardata come si guarda un alieno: come succede a Roma, in pratica, quando raccolgono i bidoni della differenziata per svuotarla tutta insieme nello stesso camion.

Ora la coscienza ecologica è finalmente penetrata in diversi strati della popolazione cittadina. La rivoluzione, come spesso succede in questi casi, è cominciata dall’alto: dal Governo, che da qualche anno si è fatto strenuo promotore di pulizia ed ecologia, ma soprattutto dalle signore della borghesia illuminata tra cui la «febbre verde» ha ormai preso il posto dell’interior design e delle opere di carità. Anche gli stilisti si sono allineati al nuovo trend e le fiere organizzate da nobili patronesse nei giardini della magione avita non si contano più. Si vendono a prezzi incredibili kurta (sorta di camicia lunga fino alle ginocchia), sari, gonne e pantaloni fatti di cotone organico, tessuti e filati a mano. Gli stessi capi d’abbigliamento da sempre confezionati con le tecniche di cui sopra e per anni snobbati dalle ricche e famose a favore del crêpe de chine d’importazione, ovviamente, e dello chiffon d’oltreoceano. Adesso il gandhiano khadi tessuto e filato a mano, e possibilmente tinto con l’indigo che ti lascia sulla pelle una «bella» tinta blu ogni volta che lo indossi, nonostante il tradizionale prescritto lavaggio con acqua e sale o acqua e aceto, è quasi obbligatorio per ogni dama al passo coi tempi. Il cotone di Phulia, nel Bengala occidentale, nei mercatini di cui sopra e nelle boutique di Khan Market è più caro della seta purissima: frutta ottimi guadagni a sarti e stilisti. E nessuna boutique di lusso che si rispetti, nessun negozio che vende a peso d’oro i saponi organici tradizionali, che altrove si vendono a poche rupie, ti consegnerà mai i prodotti in un sacchetto di plastica. Buste di carta o vezzosi sacchetti dell’organico cotone sono un must.

Non solo, è tutto un fiorire di gruppi per scambiare informazioni e indire riunioni a base di tè e biscotti sul modo migliore per creare un composto organico e coltivare così l’orto sul terrazzo. Si scambiano semi di specie vegetali autoctone e in via di estinzione, indirizzi di giardinieri specializzati, coordinate geografiche dei migliori vivai. Avere un cottage nei dintorni di Delhi con campicello coltivato con metodi tradizionali è ormai un dovere per ogni signora radical-chic degna di questo nome, e trovare un vecchio contadino che si occupi del campicello suddetto adoperando zappa e vanga d’antan perché adoperate da suo padre e suo nonno prima di lui è quasi obbligatorio. Le più intraprendenti fondano ONG a sfondo ecologista, riciclando ad esempio i fiori adoperati per funerali e cerimonie che vengono raccolti e usati per fare le polveri colorate da usare a Holi. E si spera che a qualcuno venga presto in mente di recuperare anche i tradizionali piatti usa-e-getta fatti di foglie seccate e cucite tra loro (piatti che, oltre a essere super ecologici, davano lavoro a molte donne dei villaggi) e le tazzine di terracotta grezza, anche queste usa-e-getta, che sono state soppiantate a un certo punto, come i piatti di foglie, da un diluvio di plastica.

Gli ordini che piovono dalle città e la febbre del recupero delle tecniche tradizionali stanno evitando a molti artigiani di morire di fame o di essere costretti a chiudere per cercare lavoro in fabbrica, ma una qualche forma di giustizia sociale, come nel resto del mondo, è ancora di là da venire. E si concretizza in questo caso nel divario tra chi può permettersi di comprare vegetali organici, di indossare cotone o seta tessuti a mano, di adoperare vernici senza piombo e materiali atossici e gli altri. Gli altri, in genere quelli che la mercanzia citata la producono, continuano a consumare verdure a buon mercato piene di pesticidi, indossano sari sintetici perché non si sciupano e non devono essere stirati, continuano a coprire di eternit le loro baracche. Perché per loro l’unico verde possibile è ancora quello delle tasche vuote.