Quando nel febbraio 2016, durante il suo viaggio in Messico, papa Francesco sostò a Ciudád Juarez – dall’altra parte del muro con gli Stati Uniti – Donald Trump era ancora l’outsider nella corsa alla Casa Bianca. Non c’era voluto molto, allora, a contrapporre le parole forti del Pontefice sui sogni e i diritti calpestati dei migranti con quelle del magnate che proprio sul rafforzamento della barriera stava facendo il suo cavallo di battaglia nel vicino Texas. Così – all’immancabile domanda – papa Francesco aveva risposto con un giudizio lapidario: «Chi vuole solo muri non è cristiano». E the Donald non l’aveva presa benissimo: per qualche giorno lo scontro tra le due grandi icone globali sul tema delle migrazioni era diventato il tormentone del momento.
Proprio a un anno di distanza da quel braccio di ferro Trump ha vissuto il suo primo intensissimo mese alla Casa Bianca. Settimane che hanno visto proprio la questione dell’immigrazione balzare in testa alle priorità della nuova amministrazione americana. Non solo per l’annuncio dell’intenzione di cominciare al più presto i lavori per il completamento del muro al confine con il Messico; ma anche per le retate con le espulsioni di migliaia di immigrati senza documenti in regola (nella stragrande maggioranza cattolicissimi latinos). Senza contare, poi, le polemiche roventi intorno al «Muslim Ban» con cui l’amministrazione Trump intende chiudere – almeno temporaneamente – le porte degli Stati Uniti a chi proviene da sette Paesi a maggioranza islamica, indicati come possibile luogo di provenienza di aspiranti terroristi.
Anche su altri fronti, però, le scelte politiche di Donald Trump hanno già preso direzioni opposte rispetto al magistero di Bergoglio. Caso emblematico è il tema della salvaguardia dell’ambiente, questione alla quale il Pontefice ha dedicato la sua enciclica Laudato Sì. Uno dei primi atti compiuti dal nuovo presidente alla Casa Bianca è stato sbloccare il progetto della Dakota Access Pipeline, il grande oleodotto che attraverserà i territori sacri di alcune tribù di nativi americani e che Barack Obama aveva stoppato in nome di un maggiore impegno per le energie rinnovabili. Invece il nuovo corso di Washington oggi considera questi temi una vuota ideologia ambientalista.
Non bisogna, però, dimenticare che in queste stesse settimane Trump ha anche strizzato l’occhio al popolo pro-life. Del resto i sondaggi dicono che proprio facendo leva sulle questioni legate ad aborto, contraccezione e matrimoni gay in campagna elettorale il candidato repubblicano ha raccolto più consensi di Hillary Clinton tra i cattolici Usa. Così – una volta alla Casa Bianca – ha continuato a cavalcare questo trend con la scelta del conservatore Neil Gorsuch come candidato per il seggio vacante alla Corte Suprema, accompagnata poi da una serie di altri provvedimenti di chiara impronta anti-abortista.
Di fronte a tutto questo papa Bergoglio ha tenuto un atteggiamento molto prudente. L’unico suo riferimento esplicito a Donald Trump è arrivato in una risposta a una domanda postagli all’indomani della cerimonia dell’insediamento a Washington. In un’intervista al quotidiano spagnolo «El Pais», pur citando espressamente i pericoli del populismo («nei momenti di crisi si cerca un salvatore») papa Francesco ha invitato a un atteggiamento pragmatico: «Bisogna essere concreti, vedremo che cosa farà». Si sta, dunque, piegando anche lui alle esigenze della Realpolitik vaticana?
Difficile pensare che possa essere questa l’intenzione di un personaggio come papa Francesco. L’impressione è piuttosto quella di trovarci di fronte a una strategia più sottile: quella appena iniziata ha tutta l’aria di essere una partita a scacchi tra Roma e Washington. Molto probabilmente i due si incontreranno a fine maggio, quando il presidente americano sarà in Italia per il vertice del G7 in programma a Taormina. Ma sarà un normale faccia a faccia, come tutti quelli che avvengono con i capi di Stato in visita in Vaticano.
Con buona pace di chi vorrebbe il Pontefice argentino in trincea a lanciare anatemi contro il presidente anomalo – supplendo così all’evidente vuoto di figure carismatiche nel panorama della sinistra mondiale – difficilmente questo avverrà. Perché Bergoglio ha sì presente la distanza esistente tra tutto ciò che la presidenza Trump incarna e i valori di solidarietà che vuole rimettere al centro del pensiero e dell’azione della Chiesa cattolica. Però capisce bene che il suo vero oppositore non è il miliardario newyorkese in sé, ma un avversario attivo sul suo stesso terreno: quella «teologia della prosperità», molto in voga oggi a Washington, secondo cui la ricchezza è un segno della benedizione divina. Con il corollario sociale che ai poveri ci può pensare solo la mano compassionevole dell’uomo di successo. Una religiosità che si riduce sostanzialmente a etica individuale, senza ambizioni di incidere nei rapporti sociali. E non è un mistero la vicinanza ideologica tra Steve Bannon, il più ascoltato consigliere di Trump, e il cardinale del Winsconsin Leo Burke, divenuto il punto di riferimento per la fronda interna ai Sacri Palazzi che – a partire dalle aperture nei confronti dei divorziati risposati – sta mettendo in discussione l’idea stessa di Chiesa di Bergoglio.
Papa Francesco ha sempre stigmatizzato con parole molto dure la teologia della prosperità. «L’idea che prima o poi i benefici della ricchezza prodotta arriveranno anche ai poveri è una menzogna», ha detto più volte. E questo spiega anche la centralità assegnata alla questione migranti: non passa giorno senza che il Pontefice ne parli. Lo considera un grande segno dei tempi, una presenza che mette a nudo l’ingiustizia di un mondo che alza barriere per difendere privilegi ottenuti il più delle volte imponendo la legge del più forte (in fondo «Make America great again» non vuol dire proprio questo?).
Più che i politici, però, per il Papa sono la Chiesa e la società civile degli Stati Uniti a dover prendere coscienza di questa realtà. Ed è interessante – ad esempio – che in questi giorni abbia inviato un messaggio ai movimenti popolari riunitisi per la prima volta in California. Organizzazioni che mettono insieme i poveri per difendere diritti elementari come quelli alla terra, alla casa e al lavoro ai quali ha scritto parole fortissime. «Prima o poi la cecità morale dell’indifferenza nei confronti della povertà verrà alla luce, come quando scompare un miraggio – ha scritto –. Le ferite esistono, sono una realtà. La disoccupazione è reale, la violenza è reale, la corruzione è reale, la crisi d’identità è reale, la democrazia sventrata è reale. La cancrena del sistema non può essere nascosta per sempre; e quando questo stato di cose non può più essere negato le stesse forze che lo hanno generato cominciano a manipolare la paura, l’insicurezza, i litigi e anche l’indignazione giustificata delle persone, in modo da trasferire la responsabilità di tutte queste cose verso un “non prossimo”». Lo straniero, appunto.
Papa Francesco si è affrettato a precisare che non stava parlando «di nessuno in particolare», ma di una tendenza che attraversa tutto il mondo di oggi. Anche in questo sguardo «generale», però, l’America del primo mese di Trump si specchia alla perfezione. E il problema vero di Bergoglio è che si tratta di un’America che ha anche un volto cattolico; non tanto per un personaggio come Bannon, ma per le migliaia di fedeli che nelle parrocchie dell’America profonda ragionano con le categorie di Breitbart News.
Per questo la vera sfida a Trump per papa Francesco passa attraverso i vescovi degli Stati Uniti, da un ventennio ormai schiacciati su posizioni conservatrici. Sarebbe del tutto inutile, infatti, tuonare da Roma contro i muri se in Pennsylvania o in Minnesota c’è una Chiesa cattolica il cui unico obiettivo è contrastare Planned Parenthood. Un segnale chiaro Bergoglio l’ha dato con il concistoro del novembre scorso, quando ha nominato cardinali l’arcivescovo di Chicago Blaise Chupich e quello di Indianapolis Joseph Tobin, le due voci più attente alle questioni sociali all’interno della Conferenza episcopale Usa.
Non ha fretta con Trump papa Francesco; guarda alla battaglia culturale più che alla parabola del politico. Ma è un modo per rilanciare la sfida, non per tirarsi indietro.