Dentro le miserie di Beirut

Testimonianze da un Paese schiacciato dalla crisi che fatica ad immaginare un futuro. Mentre nella capitale libanese convivono due realtà: una dove scarseggiano soldi, elettricità, cibo e l’altra fatta di ristoranti di lusso, suv e yacht
/ 11.10.2021
di Francesca Mannocchi

«Ho chiamato qualcuno per aiutarmi. E sicuramente ha più conoscenze di quante ne abbia io, così sono riuscita ad avere un po’ di carburante e quindi un po’ di elettricità. Si chiama Zakaria, senza di lui ora sarei al buio, come tutti gli altri nel mio quartiere». A parlare è Samah, sociologa delle situazioni di conflitto. È libanese, ha 44 anni. Fino a sei mesi fa viveva a Beirut con suo marito. Nella capitale libanese abitano anche i suoi fratelli e i suoi genitori. Dopo la crisi economica scoppiata nel 2019 la situazione si è fatta sempre più difficile e Samah, come altre migliaia di persone, ha deciso di lasciare il Paese. Oggi vive in Turchia. Di recente però è tornata a Beirut, non tanto e non solo per vedere i suoi genitori ma soprattutto per portare loro delle medicine, perché neanche quelle si trovano più. Zakaria, il ragazzo di cui ci ha parlato, è colui che si occupa di trovare carburante al mercato nero e portarlo nelle case in modo da far funzionare i generatori di corrente. Le tre crisi – quella elettrica, quella del denaro e quella del carburante – sono indissolubilmente legate.

Zakaria fino a un anno fa lavorava in un’istituzione pubblica. Il suo stipendio, un milione di lire libanesi, valeva circa 700 dollari. Oggi ne vale 50. Sul mercato nero, in due anni, la lira libanese ha perso oltre il 90% del suo valore rispetto al dollaro Usa. La scorsa estate un dollaro ha raggiunto le oltre 20 mila lire libanesi. Tuttavia la banca centrale, Banque du Liban, mantiene un tasso introdotto nel 1997, di 1500 lire per dollaro. Ma di fatto i cambi in funzione sono cinque. Quello ufficiale appunto; un’altro per il denaro che viene depositato in dollari dallo scorso anno, considerato «fresh money» (1 dollaro per 3900 lire libanesi); e tre cambi diversi al mercato nero: uno per le medicine a 8 mila lire per dollaro, uno per il carburante a 12 mila lire e uno per gli altri beni di consumo che oggi vale 17 mila lire per dollaro. Zakaria comunque non riceve lo stipendio da tre mesi e ha cominciato a fare lavori paralleli, come autista privato per le famiglie o come fornitore di carburante. Lo cerca dai trafficanti, ne fa scorta e lo porta nelle case di chi se lo può permettere. Per tutti gli altri le ore di buio non fanno che aumentare.

Samah durante le proteste di due anni fa – quella che i giovani libanesi chiamano la Rivoluzione del 17 ottobre 2019 – era in piazza. Aveva fiducia nello spirito non confessionale di quei giorni, in un Paese in cui ogni cosa, dal potere politico agli affari, dai quartieri ai lavori, è diviso su base settaria. Oggi afferma che anche i movimenti di opposizione si sono divisi. E che molti attivisti di allora definiscono i libanesi che hanno lasciato il Paese come traditori. Samah però non ci sta a farsi definire una traditrice. Lei la guerra civile che ha dilaniato il Libano per 15 anni, tra il 1975 e il 1990, se la ricorda (uno degli elementi che l’hanno innescata è stato il contrasto tra la componente cristiana e quella musulmana del Paese). Ricorda la fuga sui monti con la sua famiglia per paura dei combattimenti, ricorda i morti per strada quando sporadicamente tornava a Beirut con suo padre per vedere com’era la situazione. Ricorda la città spenta. Morta. Uccisa dagli scontri settari. Le case crivellate di colpi. Le famiglie affamate. Oggi, invece, la capitale le racconta un’altra storia. Povertà, certo, ma anche rimozione.

I ristoranti della costa sono pieni, come pieni sono gli hotel di lusso. Tutti illuminati a giorno. «Per la gente qui, a pochi chilometri dai veri poveri, la crisi non è mai cominciata, anzi la crisi è un’opportunità di fare più soldi». Quello che descrive Samah è il paradigma di molte crisi economiche recenti. Beirut è attraversata da profonde disuguaglianze sociali. E la storia di questa crisi è principalmente la storia di due città diverse. Una è quella degli yacht, della Marina con i suoi ristoranti di lusso, dei hotel di Rouche a picco sul mare; l’altra è quella dei quartieri poverissimi, dei libanesi della classe media che non esiste più. Dei rifugiati che vivono in quindici in una casa di tre stanze e un bagno. Con la lira libanese crollata, le riserve di dollari si sono prosciugate e chi vende petrolio al Paese accetta pagamenti solo in dollari. Perciò, a causa dei contratti non rispettati, le petroliere sono rimaste per mesi ferme al largo del porto di Beirut senza scaricare. Per i cittadini significa non avere corrente, quindi non poter usare nessun elettrodomestico, soprattutto non potere usare il frigorifero e conservare il poco cibo che ancora si riesce a comprare. La crisi legata all’elettricità non è nuova in Libano. Il Paese ha sempre convissuto con una rete di traffici illeciti che da decenni fornisce energia privata ai condomini attraverso i generatori che funzionano a carburante. E anche il carburante è da decenni al centro di traffici illegali e interessi di mafie locali.

La «mafia dei generatori» da una parte, la corrotta società statale dell’energia Electricité du Liban dall’altra. Negli ultimi due anni, da quando l’esplosione di oltre 2700 tonnellate di nitrato d’ammonio ha distrutto interi quartieri della città uccidendo centinaia e centinaia di persone, tutte le crisi libanesi si sono accavallate, peggiorando la situazione per tutti. E la forbice della disuguaglianza sociale è sempre più ampia. Chi prima con fatica riusciva a sostenere la spesa del generatore oggi vive al buio. I cittadini pagati in lire libanesi hanno visto gli stipendi svalutarsi in modo spaventoso. Non hanno potere d’acquisto su cibo, carne, pesce e verdure, al punto che secondo le Nazioni unite più della metà della popolazione vivrebbe al di sotto della soglia della povertà. Il sistema bancario è fallito e il debito pubblico sfiora il 180% del Pil. In quartieri popolosi di Beirut come Nabaa questa discrepanza è evidente. Sayde è seduto nella sua bottega di generi alimentari nella parte armena del quartiere, che è misto. Lì vivono rifugiati siriani, iracheni, ci vive una grande comunità armena appunto e poi, qualche via più in là, libanesi sciiti. Nella cassa del suo negozio Sayde ha 15 mila lire libanesi: circa 80 centesimi di dollaro. È così che chiuderà la giornata. La gente, dice, non ha più soldi nemmeno per comprare lo zucchero e il pane. Tutto il resto è considerato un lusso.

Fino allo scorso anno gli scaffali del suo negozio erano vuoti. Prima che la situazione precipitasse del tutto, i beni primari beneficiavano ancora dei sussidi statali. Quindi la gente correva a comprare farina e zucchero. Olio e sale. Da luglio lo Stato ha interrotto i sussidi e i prezzi dei beni al consumo non sono più sostenibili, quindi tutto resta sugli scaffali a prendere polvere, destinato ad andare a male. Sayde accende il telefono, mostra la foto delle tre figlie. Una sola di loro è ancora a Beirut. Le altre sono scappate via. «La diaspora, la diaspora», dice. Vanno ad aggiungersi ai 15 milioni di libanesi che vivono all’estero, tre volte il numero dei libanesi che vive qui. Poco più di 4 milioni. Cui si aggiungono i due milioni di rifugiati siriani e palestinesi. È per loro che la vita qui è una tragedia nella tragedia.

A poche vie di distanza dalla bottega di Sayde vive la famiglia di Fatma. Sono siriani, scappati da Raqqa nel 2013. Una famiglia di dieci persone, otto bambini, Fatma e suo marito, che vivono in una stanza di 25 metri quadri e un bagno. Fatma è incinta di sette mesi. Suo marito non lavora. Le uniche a lavorare sono le due figlie maggiori, Nada e Sheahab, di tredici e dodici anni. Fanno le pulizie per il corrispettivo di 2 o 3 dollari al giorno. Quello che basta per mangiare un po’ di pane o un po’ di riso. Suo figlio Ali di due anni piange. «Ha fame», dice Fatma. Dice solo questo: «Ha fame». Ci sono dei giorni che in questa casa che non è una casa, in cui i materassi vengono stesi a terra la sera e ripiegati al mattino, in cui non c’è corrente e non ci sono soldi... Giorni in cui si mangia solo tè e qualche pezzo di pane raffermo. A pochi chilometri di distanza un’altra Beirut, coi suv e la corrente elettrica che non finisce mai.