Dentro i dissidi tra Roma e Parigi

Dalla conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare al trattato del Quirinale firmato il 26 novembre scorso
/ 20.12.2021
di Alfredo Venturi

Come ricorda un diplomatico francese anonimamente citato da «Le Monde» il patto fra Parigi e Roma, solennemente firmato lo scorso 26 novembre da Emmanuel Macron e Mario Draghi nel palazzo del Quirinale, differisce su un punto fondamentale dal trattato dell’Eliseo, voluto nel 1963 da Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Cinquantotto anni or sono le firme del presidente e del cancelliere posero fine a un’ostilità secolare, a una serie infinita di guerre che avevano visto Francia e Germania schierate su fronti contrapposti. E diedero il via a una relazione speciale, che troverà nell’immagine di François Mitterrand e Helmut Kohl, mano nella mano davanti alla sterminata distesa di tombe francesi e tedesche del sacrario di Verdun, la sua consacrazione simbolica. Invece il trattato del Quirinale non è legato alla necessità di riconciliare le parti, perché «anche se Parigi e Roma hanno conosciuto talvolta forti tensioni, i due Paesi non sono stati nemici che per pochi giorni».

Quei pochi giorni risalgono al giugno del 1940, dopo che André François-Poncet, ambasciatore di Francia a Roma, dovette lasciare Palazzo Farnese, la sede cinquecentesca della sua rappresentanza diplomatica. Il ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano lo aveva convocato per consegnargli la dichiarazione di guerra. La stessa di cui si fece omaggio all’ambasciatore britannico Sir Percy Loraine. Fu quella che François-Poncet definì «pugnalata alla schiena», perché quando Mussolini ordinò alle sue divisioni di varcare il confine la Francia invasa dalla Wehrmacht era ormai in ginocchio. Del resto la storia franco-italiana è costellata di conflitti armati anche in assenza di formali dichiarazioni di guerra, e spesso l’Italia più ancora che parte in causa era la ragione del contendere, la posta in gioco.

Se in epoca antica le legioni di Giulio Cesare invasero la Gallia per annetterla al potere di Roma, più volte nelle epoche successive gli eserciti francesi restituirono la visita. A cominciare dal tredicesimo secolo, quando il papa Urbano IV ansioso di liberare il Mezzogiorno dal dominio degli Hohenstaufen e scongiurare la loro aspirazione a unificare l’Italia minacciando il potere pontificio, chiamò in soccorso Carlo d’Angiò. In pochi anni i francesi annientarono le armate degli ultimi principi svevi, Manfredi e Corradino, che trovarono la morte il primo in battaglia, il secondo sul patibolo. Due secoli e mezzo più tardi i re di Francia, prima Carlo VIII quindi Francesco II, calarono nella penisola contrastati dalle armate asburgiche. Inseguivano sogni di potere favoriti dalla frammentazione del Paese, dalle incontenibili rivalità interne e dal lontano precedente angioino.

Per non parlare della campagna napoleonica di fine Settecento («soldati, vi porterò nelle più fertili pianure del mondo, dove troverete vittorie, ricchezze e gloria!»), quando il futuro imperatore distrusse il sogno dell’élite intellettuale italiana che condivideva i principi della Rivoluzione francese e confidava nel contagio liberale, ma si trovò alle prese con truppe voraci e predatorie. Il loro comandante non esitò a cedere all’Austria la moribonda repubblica di Venezia dopo avervi razziato tesori e opere d’arte inviati a Parigi come bottino di guerra. Fortunatamente la storia girava per il verso giusto, nonostante la dura occupazione militare i valori dell’Ottantanove si fecero faticosamente strada.

Venendo ai nostri giorni il diplomatico citato da «Le Monde» parla di «forti tensioni» italo-francesi. Non sono state poche in tempi recenti le materie di attrito fra i due Paesi. Contenziosi economici, politici, strategici. Per esempio la disputa a proposito dei cantieri navali dell’Atlantico, di cui il gruppo italiano Fincantieri propose e negoziò l’acquisto. Una soluzione del tutto in linea con i principi liberisti dell’Unione europea, ma secondo Macron una simile industria strategica non doveva finire in mani straniere. Questa espressione non collima esattamente con lo spirito del trattato del Quirinale. Né con lo spettacolo delle pattuglie acrobatiche dei due Paesi, che sfrecciando per celebrare l’evento hanno mescolato nel cielo di Roma i colori delle due bandiere. Successivamente, al tempo del Governo Gentiloni, la questione dei cantieri navali è stata riavviata su nuove basi «per evitare altri malintesi», secondo l’ambigua formula diplomatica.

Un dissidio franco-italiano si è aperto anche sul problema dei flussi migratori per il quale Roma, che si trova in primissima linea nel Mediterraneo centrale, ha più volte sollecitato con scarsissimi risultati l’appoggio di Parigi. Alcuni episodi hanno esacerbato la tensione: per esempio più volte è accaduto che gruppi di clandestini sono stati respinti in Italia dalla polizia francese di frontiera.  È infine sul tappeto il nodo cruciale della Libia, che da sempre vede contrapposti gli interessi dei due Paesi. Al punto che al vertice organizzato a Celle-Saint-Cloud dal Governo francese per affrontare quella spinosa questione l’Italia è stata coinvolta solo all’ultimo momento. Individuato come statista europeo e per questo amato dagli europeisti e detestato dagli euroscettici, per esempio dai leghisti italiani, in realtà Macron è apparso prima di tutto vincolato dagli interessi nazionali.

Un altro scontro fra i due Paesi riempì le cronache ai tempi del primo Governo Conte, quando il vicepresidente del consiglio Luigi Di Maio, allora capo politico del Movimento cinque stelle, incontrò in Francia esponenti dei gilet gialli, la più radicale e populistica opposizione al presidente Macron. Stavolta la misura è colma, devono aver pensato a Parigi: tanto che una volta ancora l’ambasciatore di Francia ha dovuto lasciare Palazzo Farnese. Ovviamente in una cornice ben diversa da quella del 1940: Christian Masset è stato richiamato, come si dice in questi casi, «per consultazioni». C’è voluto l’avvento a palazzo Chigi di Draghi, che ha con Macron un buon rapporto personale e ne condivide la visione europeista, per rasserenare il clima e portare a conclusione il lungo lavoro preparatorio del trattato del Quirinale.

Come molti testi di simile natura anche questo documento è ricco di belle parole ma piuttosto povero di contenuti concreti. Vi si tratteggia un programma di cooperazione rafforzata in materia di difesa, di collaborazione nell’ammodernamento digitale e nelle questioni ambientali e spaziali. Ma c’è chi intravvede nella firma di Macron il desiderio di mandare un segnale all’ingombrante socio d’oltre Reno, proprio mentre Olaf Scholz prende il posto di Angela Merkel alla Cancelleria federale: il patto dell’Eliseo gode di buona salute e la trazione franco-tedesca resta vitale per l’Europa, ma Berlino deve sapere che la Francia guarda anche oltre. Per esempio è pronta ad affrontare con l’Italia non soltanto l’eterno problema dell’instabilità mediterranea, ma anche l’ombra dello spietato rigorismo che in compagnia dei «virtuosi» del Nord la Germania ha gettato sull’Unione europea.