La grande guerra fra il «New York Times» e Donald Trump è una storia parallela di questa campagna elettorale, che serve a sottolinearne l’anomalia. Ancora una volta è il quotidiano newyorchese a tirar fuori lo scoop che mette in difficoltà il candidato. Dopo le tasse, le donne. E proprio come accadde per la dichiarazione dei redditi, Trump reagisce minacciando querele (nota bene, in certi paesi europei è normale, qui per niente: col Primo Emendamento a tutela della libertà di stampa la querela per diffamazione è molto difficile vincerla). È ormai una specie di duello parallelo che accompagna quello fra Trump e la Clinton. Ricordo che il direttore del «New York Times» a suo tempo si disse disposto anche a finire in carcere pur di pubblicare ogni verità nascosta su Trump.
Il «Times» per primo, seguito poi anche dal «Washington Post» e perfino da un quotidiano come «Usa Today» che ha rotto una tradizione d’indipendenza e ha dato a Hillary il primo endorsement della sua storia: è evidente che molti media hanno deciso che questa non è una campagna normale, e che la stampa ha una missione da svolgere in difesa della democrazia Usa. Quasi un dovere costituzionale. Non è accaduto subito, ma nelle ultime settimane è scattata quasi una clausola di coscienza tra molti miei colleghi americani. Non vogliono svegliarsi il 9 novembre, guardarsi allo specchio, e chiedersi: cosa avrei dovuto fare, e non ho fatto, per impedire questa catastrofe?
In quanto al merito delle ultime (per ora!) rivelazioni, ne emerge la figura di un vero maniaco sessuale, che allunga le mani sulle donne senza nessuna inibizione. Molte di loro si sono decise a vuotare il sacco dopo aver sentito la sua difesa in tv contro Hillary, la famosa frase «erano solo chiacchiere da spogliatoio maschile». Con la quale lui tentava di spegnere lo scandalo precedente, suscitato da un video del 2005 dove lui si vantava di afferrare dalle parti intime le donne che gli piacciono, «tanto ci stanno, perché sono un Vip».
«Io sono l’ultima barriera fra voi e l’Apocalisse». Così Hillary Clinton ha concluso un’intervista al «New York Times». Toni drammatici, ma non sorprendenti. È vero, ogni candidato ha tendenza a definire la sua campagna come «la più importante della storia». Stavolta ci credono in molti. La frase di Hillary riecheggia commenti che dilagano su molti media dopo il dibattito televisivo andato in onda domenica 9 ottobre. In particolare quella minaccia di Donald Trump, riferita allo scandalo delle email di Hillary: «Se divento presidente nominerò un procuratore per incriminarti e mandarti in carcere». In quel momento l’America si è scoperta in versione Repubblica delle banane, una di quelle nazioni illiberali dove chi vince un’elezione arraffa tutto, e per gli sconfitti è consigliabile l’esilio, se fanno in tempo a scappare. Molti opinionisti, incluso qualche repubblicano, ormai descrivono l’8 novembre come una scelta tra la democrazia e un salto nel buio. Nella stessa intervista Hillary diceva: «Se stessi correndo contro un altro repubblicano, avremmo i nostri disaccordi, non fraintendetemi, e farei di tutto per vincere. Ma non andrei a letto di notte con un nodo allo stomaco».
Le ansie dei democratici sono in parte attenuate dai sondaggi. Più ancora del secondo duello, con ogni probabilità a indebolire Trump è stato lo scandalo del video datato 2005. I sondaggi usciti dopo, accentuano una tendenza che si era già notata dal 26 settembre (primo dibattito in tv), cioè un calo di Trump. L’ultima rilevazione demoscopica targata «Wall Street Journal»/Nbc attribuisce alla Clinton nove punti di distacco sul repubblicano.
E forse bisognerebbe cominciare a mettere fra virgolette l’etichetta «repubblicano». Non si sa più bene con chi e contro chi stia correndo il tycoon dei casinò (un business nel quale ha dichiarato la sua settima bancarotta la settimana scorsa, al casinò Taj Mahal di Atlantic City). È un vero caos quello che regna nel partito repubblicano, dopo la scelta del presidente della Camera Paul Ryan d’interrompere le iniziative pro-Trump per concentrarsi solo sulla difesa dei seggi parlamentari in palio a novembre. Il gesto viene interpretato come una previsione sulla sconfitta di Trump e un tentativo di limitare i danni almeno al Congresso. L’8 novembre si rinnova l’intera Camera e un terzo del Senato. In genere gli elettori americani sono restii a dare un voto «separato», cioè eleggere un presidente di un partito e deputati o senatori del partito rivale. Di qui lo scenario per cui i democratici, se trascinati dalla vittoria della Clinton, potrebbero sottrarre almeno una parte del Congresso (più probabile il Senato, più ardua la Camera) ai repubblicani che sono attualmente maggioritari in tutti e due i rami.
Colpisce una dichiarazione di Trump in cui si descrive come finalmente «libero dalle catene» del suo partito, libero cioè di fare campagna come vuole lui. Ma anche pronto a incolpare l’establishment e i notabili di partito se sarà battuto.
Il degrado del costume politico è stato evidente a tutti la sera del 9 ottobre, una data che resterà scolpita nella storia di questo Paese per la sua infamia. È stato il duello dell’odio. Pochi contenuti, troppa cattiveria. Un clima avvelenato fin dal primo gesto: quando Donald Trump e Hillary Clinton arrivano sul palco quella sera, non si stringono neppure la mano. Al primo match, il 26 settembre, c’era stato almeno quell’abbozzo di fair play. Un dibattito «brutale», lo definisce il sito Politico.com che aggiunge un’amara ma inevitabile previsione: «Altri venti giorni di fango». Il «New York Times» parla di «colpi bassi», in un periodo in cui pare che le parti basse dell’anatomia abbiano preso il sopravvento.
Sul «Washington Post» alcuni esperti si dedicano a un esercizio da etologi (quelli che studiano il comportamento animale): smontano ogni singolo gesto, per un’analisi del linguaggio corporeo in quei 90 minuti infernali. Trump si distingue per dei tic da alfa-maschio, capobranco: tira su col naso come un toro che sta per caricare; gira attorno a Hillary come un leone che vuole marcare il suo territorio; le punta costantemente l’indice contro, «un gesto ostile in tutti i linguaggi di tutte le tribù». Zoologia e antropologia spiazzano l’analisi politica. Non convince neppure la cortesia finale, perché quando Hillary confessa che di Trump le piacciono i figli, è un complimento con veleno subliminale: The Donald tiene famiglia e a quella pensa prima di tutto.
Prima conclusione. La democrazia americana è malata, con grande godimento di Vladimir Putin e Xi Jinping (mai elezioni Usa sono state raccontate con tale gusto dai media di regime russi e cinesi). È difficile ritrovare nel passato recente un simile livello di animosità, di disprezzo, di insulto. Seconda conclusione. Donald Trump se l’è cavata un po’ meglio rispetto al primo dibattito, che per lui era stato un disastro. Ma un pareggio non basta a Trump, che da tre settimane è in calo nei sondaggi.
Sui temi, i due sono stati prevedibili. Prendiamo le tasse: lui le vuole ridurre in modo «reaganiano» (ma lo fece anche George W. Bush) cioè abbassando soprattutto la pressione fiscale sulle imprese, quindi indirettamente sui loro ricchi azionisti. La teoria è quella del «trickle down», aumentando gli incentivi a investire per i più ricchi, tutti ci guadagneranno. Lei lo ha accusato di fare «gli interessi di Donald», e ha rilanciato le sue proposte di una stangata sui super-privilegiati, una minimum tax del 30% per chi guadagna più di un milione lordo all’anno (Buffett Rule) e un’altra sovratassa sui redditi oltre i 5 milioni.
Altra divisione classica è sull’energia. Trump accusa le politiche ambientaliste di Obama-Clinton di avere «distrutto l’industria energetica americana». Strizza l’occhiolino ai petrolieri e a tutta l’industria fossile (carbone incluso) promettendogli un’America senza Environmental Protection Agency. Messaggio che piace anche a un pezzo di classe operaia, peraltro. Hillary gli oppone il fatto che l’industria energetica americana non se la cava male: il Paese ha quasi raggiunto l’autosufficienza e non importa più una sola goccia di petrolio dal Medio Oriente. Lei promette di accelerare la transizione verso le energie rinnovabili, per fare dell’America «la superpotenza verde del XXI secolo».
Trump è stato efficace nella parte distruttiva. Le sue accuse a Hillary sono semplici e chiare: fai politica da 30 anni e non hai risolto i problemi, sei tutta chiacchiere e niente azione; il Medio Oriente dopo 8 anni di politica estera democratica è un disastro. Lei dà il meglio quando entra nei dettagli (perché li conosce) e quando descrive un’America inclusiva, i cui valori sono per tutti: donne, bianchi e neri, musulmani, ispanici, immigrati, disabili. Tutte categorie che Trump ha insultato in questa o quella occasione.
Ancora una volta l’ombra di Vladimir Putin si è allungata sulla campagna elettorale. Hillary ha evocato, tra le ragioni per cui Trump non pubblica le sue dichiarazioni dei redditi, la possibilità di conflitti d’interessi per i suoi legami affaristici con la Russia. E ha ricordato il ruolo degli hackers russi (con WikiLeaks) che sistematicamente prendono di mira i siti del partito democratico e la campagna di Hillary. Lui non ha preso le distanze da Putin neanche in questa occasione. Anzi, Trump si è dissociato dal suo vice Mike Pence che di recente ha invocato una presenza militare Usa in Siria più determinata per rintuzzare l’avanzata russa.
Nel primo duello tv Trump si lasciò andare ad una profezia di malaugurio: «Questa crescita economica è drogata dalla Federal Reserve che per motivi politici aiuta Obama-Clinton, siamo in piena bolla e presto scoppierà». Almeno di bolle, un pochino il bancarottiere seriale se ne intende...