L’estate non sarà per niente tranquilla per i politici, i diplomatici ed i sindacalisti che, direttamente od indirettamente, operano sul fronte della trattativa bilaterale tra la Svizzera e l’Unione europea, in vista della conclusione di un accordo istituzionale. Mosso dalle polemiche sorte nelle ultime settimane, dopo le dichiarazioni del capo del Dipartimento federale degli esteri sulle misure accompagnatorie alla libera circolazione, e le repliche del presidente del partito socialista e del presidente dell’Unione sindacale svizzera, il Consiglio federale ha reagito ed ha affermato la sua posizione. In sostanza, ha ribadito che le misure accompagnatorie costituiscono una linea rossa insuperabile, come era stato stabilito lo scorso mese di marzo, quando venne definito il mandato negoziale. Ha però anche accolto, almeno in parte, il desiderio espresso da Ignazio Cassis di valutare se gli obiettivi ricercati con le misure accompagnatorie possono essere raggiunti anche seguendo altre strade.
A questo fine, ha previsto di organizzare durante i due mesi estivi un’ampia consultazione dei cantoni e dei partner sociali sulle misure accompagnatorie. I modi ed i tempi della consultazione sono stati affidati a tre dipartimenti federali, l’economia, gli esteri e la giustizia e polizia. Tre consiglieri federali sono dunque coinvolti: Johann Schneider-Ammann, Ignazio Cassis e Simonetta Sommaruga. I risultati ottenuti consentiranno al governo, probabilmente all’inizio di settembre, di confermare la sua attuale posizione, o di modificarla.
Ricordiamo che i due principali punti di divergenza tra la Svizzera e l’Unione europea sulle misure fiancheggiatrici sono la cosiddetta regola degli otto giorni e la somma di denaro che vien chiesta in deposito. Le aziende e gli artigiani che vengono a lavorare in Svizzera, con lavoratori distaccati, devono annunciare il loro arrivo otto giorni prima dell’inizio dei lavori e devono anche indicare i salari che intendono pagare. La misura consente alle autorità elvetiche preposte di verificare che le condizioni di lavoro vigenti nel paese vengano rispettate e che non vi sia nessun dumping salariale. Alle aziende straniere vien inoltre chiesto di depositare una somma di denaro, destinata a coprire eventuali future multe, dovute a infrazioni commesse. Sono misure che trovano ampi consensi in Svizzera, soprattutto nei cantoni di frontiera.
L’Unione europea riconosce le particolarità del mercato del lavoro elvetico e la necessità di procedere a dei controlli, ma si è sempre dichiarata contraria alle attuali misure di accompagnamento. Le ritiene eccessive, discriminatorie e per niente in sintonia con la libera circolazione e con le regole del mercato unico. Vi vede anche una celata forma di protezionismo ed un ostacolo alla libera concorrenza. Da un po’ di tempo, l’UE ha adottato misure di protezione dei mercati del lavoro dei suoi Stati membri e chiede alla Svizzera di accettarle, di farle sue e di rinunciare alle misure fiancheggiatrici. I provvedimenti adottati da Bruxelles sono però molto più timidi e meno efficaci di quelli svizzeri e, quindi, difficilmente accettabili per il Consiglio federale e per il mondo politico e sindacale elvetico.
La consultazione che si svolgerà nei prossimi due mesi mostra quanto lunga sia ancora la strada da percorrere, prima di poter arrivare ad un accordo. Presenta comunque un doppio vantaggio. Sul piano interno consente di chiarire le posizioni degli uni e degli altri sulle misure d’accompagnamento. In particolare di confermare o di superare la spaccatura in merito, sorta nelle ultime settimane, tra il partito liberale radicale, da una parte, ed i partiti della sinistra ed i sindacati, dall’altra. È risaputo che un eventuale accordo istituzionale con l’UE ha buone possibilità di superare lo scoglio di una votazione popolare, soltanto se il PLR, il PPD e la sinistra lo appoggiano uniti, senza riserva. L’opposizione dell’UDC è scontata e potrebbe rivelarsi vincente se dovesse trovare l’appoggio, anche se per ragioni diverse, di un altro partito di governo, o dei sindacati. Sul piano esterno, la consultazione permetterà all’UE di scoprire il forte sostegno di cui godono in Svizzera le misure di accompagnamento e di rendersi conto che un accordo istituzionale che non rispetti in modo adeguato il mercato del lavoro elvetico, non ha nessuna chance di essere accettato dal popolo e dai cantoni.
A questo punto è difficile tentare una previsione. L’accordo, per il quale si sta negoziando da quattro anni, è voluto dall’economia e dal popolo svizzeri, perché rafforzerebbe la via bilaterale, una strada che finora ha dato buoni risultati. Molte aziende esportano la maggior parte della loro produzione nell’UE ed il loro futuro dipende in buona parte dalle buone relazioni commerciali che riescono ad intrattenere con i paesi dell’Unione. Temono che il fallimento del negoziato in corso renda problematico lo sviluppo dei vecchi accordi bilaterali e ancora di più la nascita di nuovi accordi bilaterali, ritenuti importanti. Anche l’UE vorrebbe giungere ad una soluzione concordata, ma punta ad avere un mercato unico con le stesse regole e con poche eccezioni, e non vuole che eventuali concessioni fatte alla Svizzera possano essere invocate da Londra nel negoziato sui suoi futuri rapporti con l’Unione.
La ricerca di un compromesso continua però a essere difficile. Anche il contesto in cui avviene non è molto favorevole. Innanzitutto c’è il fattore tempo. Il capo della diplomazia elvetica vorrebbe concludere entro ottobre, ossia entro un lasso di tempo tutto sommato breve, perché due campagne elettorali inizieranno nei mesi successivi. Quella per le elezioni europee, che in primavera porteranno al rinnovo del Parlamento e della Commissione dell’UE, e quella per le elezioni nazionali svizzere, che si terranno nell’autunno dell’anno prossimo. Le campagne elettorali rendono praticamente impossibile la conclusione di un accordo diplomatico. In secondo luogo, ci sono tre altri dossier aperti che incidono sul negoziato in corso, anche se probabilmente soltanto in maniera indiretta. Trattasi dell’1,3 miliardi di franchi che il Consiglio federale vorrebbe versare nei prossimi dieci anni (130 milioni all’anno) ai paesi dell’Europa, in particolare dell’Est, soprattutto per progetti legati alla formazione, ma che devono essere approvati dalle Camere federali. Trattasi anche dell’equivalenza della Borsa svizzera che l’Unione europea ha riconosciuto soltanto fino alla fine del 1918 e che la Svizzera vorrebbe definitiva. Infine, è emersa la questione delle indennità per i frontalieri disoccupati. L’UE vuol far pagare le indennità al paese dove il frontaliere lavora e non più, come è avvenuto finora, al paese dove risiede. Per la Svizzera, la fattura potrebbe ammontare a parecchie centinaia di milioni di franchi.
In questi primi otto mesi di partecipazione al governo federale, Ignazio Cassis ha rilasciato un buon numero di dichiarazioni pubbliche, provocando spesso reazioni contrarie. Finora non è però riuscito ad ottenere sostanziali progressi nella trattativa con Bruxelles. Quello che succederà nei prossimi mesi, ci consentirà probabilmente di procedere ad una prima valutazione serena ed oggettiva del suo operato.