Dazi e controdazi

Guerra Usa-Cina – Xi vuole mobilitare tutte le resistenze e i dissensi interni agli Usa e colpire il partito repubblicano nelle sue constituency, mentre Trump vuole concessioni dai cinesi
/ 09.04.2018
di Federico Rampini

 Il presidente degli Stati Uniti è tentato dal raddoppio nella partita dei dazi, o almeno così vuol far credere ai cinesi. Il mondo scivola verso una guerra commerciale vera e propria, con le due superpotenze che si sferrano colpo su colpo e due leader impegnati in un braccio di ferro impressionante. In un colpo solo Trump la sera del 5 aprile ha annunciato altre tasse punitive, due volte più ampie di quelle messe a punto solo una settimana prima. Xi Jinping fa un calcolo razionale, in apparenza ineccepibile: negli Stati Uniti si avvicinano le elezioni legislative di mid-term, a novembre i repubblicani rischiano di perdere la maggioranza almeno in uno dei due rami del Congresso (più probabile la Camera), di conseguenza le voci che all’interno degli Stati Uniti si oppongono al protezionismo potrebbero piegare la Casa Bianca. Ma in questo duello politico, Trump può riuscire a sorprendere i cinesi proprio per la sua mancanza di razionalità. Il presidente è un outsider, un alieno con una storia tutta extra-politica, il partito repubblicano lo ha subito, non lo ha espresso. In un certo senso Trump è più simile a Xi Jinping di quanto il leader cinese possa immaginare. L’ego, la necessità di non perdere la faccia, tipica degli autocrati, guida Trump più dell’aritmetica dei sondaggi nelle circoscrizioni elettorali. Dunque in quest’ultima mossa è Trump che rovescia il tavolo da gioco, pur di andare a vedere il bluff cinese. Perché una cosa gli è chiara: la Cina ha più da perdere degli Stati Uniti.

Tutto era cominciato con delle punture di spillo (così appaiono in retrospettiva i primi dazi decisi all’inizio dell’anno sui pannelli solari e l’acciaio) ora siamo alle cannonate. Con l’ultimo annuncio della Casa Bianca che riguarda altri dazi su 100 miliardi di importazioni, per ora solo una minaccia, la portata complessiva delle misure punitive annunciate da Trump andrebbe a colpire un totale di 150 miliardi di dollari che equivale a quasi un terzo di tutte le importazioni dalla Cina (505 miliardi il totale nel 2017).

È incomprensibile l’assenza dell’Unione europea da una partita in cui si gioca il futuro della globalizzazione. Va ricordato che nel merito Trump ha sacrosante ragioni: sia quando denuncia la mancanza di reciprocità (resa evidente dai giganteschi attivi commerciali accumulati dalla Cina, ma anche dai dazi cinesi che erano in partenza ben più alti di quelli americani o europei), sia quando accusa Pechino di furto sistematico di proprietà intellettuale. Sul metodo adottato da Trump si può opinare, ma è evidente che anche su questo terreno lui si muove come un attore non tradizionale, imprevedibile, anti-politico. Usa il bluff e la provocazione, ma può arrivare a dimostrare che questa Cina è una tigre di carta, vulnerabile se improvvisamente le si chiudono gli sbocchi sui mercati esteri.

Il fronte della guerra commerciale è alla terza ondata di misure protezioniste dall’inizio dell’anno. La prima colpì la Cina coi dazi sui pannelli solari, la seconda fu mirata contro le esportazioni di acciaio e alluminio, la terza colpirà con una tassa doganale pari al 25% un ampio ventaglio di settori del made in China per un valore di oltre 50 miliardi di importazioni all’anno. Nel mirino ci sono 1.300 categorie di prodotti cinesi, molti dei quali hi-tech in settori come i semi-conduttori, le telecom, l’aerospaziale. L’America studia con allarme crescente il cosiddetto «obiettivo 2025», un piano con cui Xi Jinping aspira alla leadership mondiale in molte tecnologie avanzate.

Nel frattempo la Cina reagisce colpo su colpo. E questo ha già mobilitato un ampio fronte di lobby americane, contrarie al protezionismo del presidente: dagli agricoltori alle multinazionali come General Electric e Boeing, alla finanza di Wall Street. Se si eccettuano gli agricoltori (categoria compatta nel volere frontiere aperte), il protezionismo scava un fossato sociale tra due constituency: da una parte c’è la classe operaia dell’industria tradizionale dove Trump ha uno zoccolo duro di elettori che vogliono essere difesi dalla concorrenza cinese; dall’altra c’è un establishment capitalistico che si è accodato tardivamente a questo presidente (avrebbe preferito Hillary Clinton) e si era illuso di condizionarlo. La posizione degli agricoltori è più complicata: molti di loro hanno votato Trump, ma l’agricoltura è sempre vulnerabile alle ritorsioni perché è uno dei pochi settori dove gli Stati Uniti sono eternamente in attivo, esportano molto più di quanto importano. Proprio come la Cina nel manifatturiero. Anche il mondo industriale ha qualche contraddizione al suo interno. Apple fa assemblare gran parte dei suoi prodotti in Cina e in quel Paese riesce anche a vendere bene: quindi teme di essere due volte vittima se continua e si estende la guerra commerciale, può finire con l’essere colpita sia sui prodotti che fabbrica a Shenzhen e reimporta negli Stati Uniti, e forse anche su ciò che vende in Cina. Ma nella stessa Silicon Valley, due giganti digitali come Google e Facebook sono invece tagliati fuori dal mercato cinese, due esempi tipici del trattamento discriminatorio che Pechino infligge agli occidentali.

La prossima interferenza in una campagna elettorale americana non sarà di Vladimir Putin ma di Xi Jinping. E il presidente cinese non agirà di nascosto, appoggiandosi su hacker, manipolando fake-news su Facebook, o avvalendosi di complici come WikiLeaks. Da Pechino le ingerenze sono già annunciate ufficialmente e avvengono alla luce del sole. I dazi cinesi sono mirati con precisione chirurgica, per colpire il partito di Trump alle prossime elezioni legislative di mid-term (novembre), circoscrizione per circoscrizione. À la guerre comme à la guerre.

Nel gioco delle rappresaglie i cinesi hanno molto da perdere e Trump lo sa. La loro fragilità è racchiusa in uno squilibrio cinque a uno: tanto è il rapporto tra le esportazioni cinesi in America e il loro reciproco. In una situazione così sbilanciata, e con i dazi cinesi che già partono da livelli molto più alti (anche il decuplo: un’auto americana è tassata al 25% in Cina, un’auto cinese al 2,5% in America), la capacità di rappresaglia è limitata.

Il 2 aprile era stata Washington ad aprire il fuoco pubblicando la lista completa dei 1.300 prodotti made in China su cui verranno applicati (ma non si sa quando) i nuovi dazi del 25%. Quello che è interessante della lista è la sua ampiezza, nonché il fatto che vi abbondano prodotti ad alto valore aggiunto, tecnologicamente avanzati: è lì che si gioca la nuova sfida, non sui settori maturi come tessile-abbigliamento o calzature. Trump però vuole usare questo annuncio per indurre Xi a fargli delle concessioni, non a caso resta vaga la data di applicazione, e il 15 maggio la Casa Bianca vuole consultare diversi settori dell’economia americana (tra cui saranno ben rappresentati coloro che si oppongono al protezionismo).

C’è tanta agricoltura tra i bersagli della rappresaglia cinese. Da un lato è un’ovvietà perché il settore agricolo americano è uno dei principali esportatori in Cina (soia, cereali, carne suina, ortofrutta), d’altro lato colpirlo è anche un modo per infliggere il massimo danno politico al partito repubblicano. Dall’Iowa all’Indiana i repubblicani hanno fatto il pieno di voti nel 2016 e a novembre di quest’anno potrebbero essere penalizzati.

Trump reagisce con un’alzata di spalle. «Guerra commerciale? Quella è avvenuta anni fa e l’ha vinta la Cina. Noi non abbiamo più nulla da perdere!» In una situazione così asimmetrica il protezionismo non è affatto quella «guerra dove perdono tutti»: uno dei due ha molto più da perdere.

Né vale il mito ricorrente sulla possibile ritorsione cinese sul fronte finanziario, cioè uno stop agli acquisti di Buoni del Tesoro americani. Questo tema che affascina la fantasia popolare – e riempie di commenti dei lettori il mio blog – è in realtà privo di ogni fondamento. Un paese che accumula avanzi commerciali stratosferici come la Cina non ha scelta: è costretto a riciclarli investendo in titoli esteri, e i Treasury Bond sono i più sicuri, i più liquidi. Non comprarli farebbe più male alla Cina che agli Stati Uniti (i quali peraltro sono meno dipendenti di quanto voglia la leggenda: il primo investitore in Treasury Bond è la Federal Reserve, il secondo è il Giappone).

Dove semmai la Cina ha un suo vantaggio nei rapporti di forze è nell’altra asimmetria che riguarda i sistemi politici. In una liberaldemocrazia come gli Stati Uniti, le voci contrarie al protezionismo pesano nel dibattito politico, possono influenzare il Congresso e in parte anche la Casa Bianca. Un regime autoritario come quello cinese può sopportare danni economici in silenzio, senza che i danneggiati abbiano facoltà di intervenire. Inoltre nella logica di un autocrate come Xi è sempre complicato perdere la faccia.

C’è una debolezza «culturale» dell’Amministrazione Usa, già evidente nella prima versione dei dazi sull’acciaio: l’incapacità di progettare una strategia delle alleanze. La Cina bara al gioco e le sue vittime non sono solo in America. Logica vorrebbe che a imporre un patto più equo sia un asse Usa-Ue. Washington non sta facendo quasi nulla per evidenziare la convergenza d’interessi e costruire questo genere di fronte unito. Questo chiama in causa gli europei, però. Anch’essi prigionieri di ambiguità e contraddizioni interne. La madre di tutte le contraddizioni si chiama Germania: la Cina d’Occidente. La Germania da decenni ha un comportamento mercantilista molto simile a quello cinese. Accumula attivi commerciali e così facendo deprime la crescita altrui. Certo non lo fa barando al gioco come la Cina, però si trova in una posizione delicata e non a caso molto spesso ha scelto una linea filo-cinese negli scontri sul commercio globale. L’assenza dell’Europa da questa partita è colpa in parte di Trump, in parte degli europei stessi. Che pagheranno le conseguenze, se le regole del gioco globali non vengono rinegoziate in modo più equo e più reciproco, limitando i privilegi anacronistici che vennero offerti alla Cina quando entrò nel Wto 17 anni fa.