I dati personali sono sempre stati importanti per le aziende e hanno assunto maggiore rilevanza il 27 ottobre 1994, con l’apparizione, sui nostri schermi, del primo banner pubblicitario. Da quel giorno, negli addetti ai lavori del settore pubblicitario, si è instaurato un bisogno di ottimizzare l’investimento, rendendolo vieppiù «misurabile» e «preciso». La partita si gioca su un campo caratterizzato da una certa complessità e con obiettivi alti di selezione del potenziale consumatore. La volontà è quella di evitare di disperdere l’investimento sul pubblico non interessato al prodotto offerto. Di conseguenza, la tecnologia ha proposto, anno dopo anno, strumenti più raffinati per suddividere, organizzare, focalizzare; tanto che oggi, parlando di target della comunicazione, definiamo quel gruppo organizzato con il termine personas.
Le personas sono un gruppo d’informazioni raccolte secondo criteri vari; veri e propri identikit di clienti, una sorta di profilo dell’utente ideale, dove sono raccolti dati sui bisogni, i comportamenti, gli interessi e le aspirazioni degli utenti reali. Nella definizione delle personas si tiene conto di qualsiasi informazione che possa tornare utile alla ricostruzione del proprio cliente ideale: età, sesso, posizione geografica, reddito, comportamenti, interessi, ragioni d’acquisto e necessità. Identificando due o tre tipologie di personas, nonostante possa apparire come una restrizione degli utenti cui potersi rivolgere, si definisce un pubblico «mirato» che sarà più proattivo nelle proposte commerciali (ordinari visitatori del portale e-commerce che si «convertono» in cliente, cioè che acquista) e nella fidelizzazione con il brand (quante volte quello stesso cliente tornerà a comprare).
Come consumatori, capiamo subito quando siamo stati «catturati» da un marchio commerciale. Dopo avere abbandonato un carrello su un sito di e-commerce, o dopo avere cercato un tale prodotto su un motore di ricerca, da lì a poco, sui vari portali o siti web visitati in seguito, appariranno, «magicamente», le pubblicità di quella marca specifica o di quella categoria di prodotti che ci avevano interessato in precedenza. Taluni considerano tali pratiche «un’invasione della privacy», altri un semplice esercizio di pubblicità di un prodotto, in altri termini, un aiuto offerto al consumatore per valutare meglio l’acquisto. La tesi commerciale sostiene che quando ci si rivolge a un pubblico eterogeneo, il rischio è quello di rivolgersi a «tutti e nessuno». Impostare una strategia che possa soddisfare tanti diversi clienti è pressoché impossibile, o comunque poco efficace, in quanto non assicura un’esperienza d’interazione soddisfacente e personalizzata sui propri interessi specifici.
Interagendo invece con le personas, si ha l’opportunità di dare al prodotto un’identità ben chiara ed è quindi possibile delineare con precisione il bacino di utenti di riferimento. Tutte le azioni che s’intraprendono saranno quindi modellate sulle caratteristiche di tali personas, rendendo l’interazione con i propri clienti unica e pensata su misura di ciascuno. Sappiamo da sempre che la precisione è utile all’esercizio economico. I fondi investiti, infatti, sono diretti all’obiettivo e, teoricamente, il ritorno dell’investimento sarà mirato e quindi percentualmente superiore rispetto a quello di una comunicazione di massa. Il concetto di personas, nel marketing, è l’attuale confine della raccolta dati organizzata.
Tutto bene, allora? In realtà, soprattutto per prodotti mass market, una certa dispersione genera conoscenza del brand e del prodotto che sostiene l’immagine e di conseguenza gli acquisti. Puntare al solo cliente focalizzato sul tema (cioè che decide l’acquisto) è una tecnica spesso riduttiva perché rischia di deprimere l’effetto degli influenzatori («Mamma voglio le caramelle!») e di soddisfazione ricavata dal consumatore nell’esibizione dell’acquisto fatto («Che bella la tua nuova felpa di Gucci!»). Dal lato del consumatore, inoltre, è emersa l’esigenza di difendersi: sapere di più di ciascuno è, di fatto, un’intrusione nella nostra vita personale e privata, in quella sfera che ciascuno ritiene da sempre «riservato». L’intrusione del marketing avviene proprio a causa di questa «fame» di informazioni su ciascuno di noi le quali, proprio perché di natura «individuale», si chiamano «dati personali».
Il legislatore è intervenuto cercando un giusto equilibrio fondato sul concetto di «scambio»: quello tra operatore economico che ha «fame» di dati e quello del consumatore che vuole controllarne l’uso. Lo scambio avviene secondo le regole del vivere civile: laddove vuoi prendermi qualcosa di mio me lo devi chiedere ed io devo poter essere d’accordo; se ne abusi, devo potermi difendere. Perciò, tra una impresa che pretende di maturare nel tempo dei benefici, «conoscendo» il proprio consumatore e il consumatore stesso che consente all’azienda di capire meglio le proprie abitudini.
Il 25 maggio 2018, l’Europa – la Svizzera ha seguito con rigore elvetico – ha costretto le aziende ad accettare alcune regole semplici nella gestione del «privato» del consumatore, cioè del suo dato personale.
Quel giorno, siamo tornati al baratto tra, una parte che cede dati – seppur a titolo gratuito – e una parte che acquisisce dati, secondo regole chiare. Se, per caso, il consumatore desiderasse riappropriarsi in via esclusiva dei propri dati, lo potrà fare senza dare particolari spiegazioni. Ma vi è un «cuore» anche nello spazio privato, quello che va oltre la concessione di analisi dei propri consumi, rappresentato da informazioni di particolare sensibilità come quelle sul nostro stato di salute o le nostre preferenze sessuali, rimaste ai margini dello scambio descritto.
La normativa se ne fa carico: se per via di una malattia sono più vulnerabile, perché rischio di essere emarginato, la legge impone una logica di pari opportunità – per esempio in una selezione del personale – è vietato raccogliere i fatti «sensibili», personali, intimi di ognuno di noi. Sono trascorsi anni nei quali siamo stati sottoposti a reboanti concetti a difesa della nostra «privacy», non sapendo bene di cosa si trattasse. Alla prima e-mail non autorizzata scattava la segnalazione al garante della privacy per abuso della sfera personale, forse con qualche esagerazione.
Poi è arrivata la pandemia. Da quel giorno c’è necessità di auto-certificazioni di buona salute, un foglio A4 dove rilasciamo informazioni sanitarie, senza esitare. Per entrare in Spagna, ad esempio, dobbiamo compilare un documento online che genera un QR Code attestante il nostro stato di salute (necessariamente buono). Entriamo al ristorante e ci prendono la temperatura. All’entrata di un’azienda, firmiamo l’ingresso, apponendo una sigla su un formulario prestampato che chissà mai quale fine farà. Un domani potrebbe risultare più utile un tatuaggio a forma di bollino blu = sano. Nella sacrosanta tutela della salute pubblica e individuale si annida un altro virus altrettanto mortale, quello della potenziale emarginazione dalla società, la discriminazione tra «sani» e «malati». L’unico antidoto è il rispetto della «persona», non più solo per scopi di marketing.
Dati, bene sensibile
Le tecnologie moderne permettono una pubblicità sempre più mirata grazie ai dati personali messi a disposizione, con però dei limiti posti dal legislatore
/ 25.01.2021
di Mirko Nesurini
di Mirko Nesurini