«Historia magistra vitae», scriveva Cicerone. Una massima che il nostro Paese sembra essersi dimenticato, visto che una volta di più si ritrova sul banco sugli imputati, senza aver tratto i necessari insegnamenti dalla sua storia recente.
A riportare la Svizzera nella scomoda posizione dell’accusata è questa volta la questione dei fondi degli oligarchi russi (e bielorussi) vicini a Putin e depositati nel nostro Paese. Fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina sono scattate su più fronti le sanzioni economiche internazionali contro il regime di Mosca. Il Consiglio federale ha adottato quelle definite dall’Unione europea, giunte nel giugno scorso al loro undicesimo pacchetto. Questo allineamento di Berna alle misure stabilite a livello europeo non sembra però bastare, visto che dallo scoppio della guerra le nostre autorità vengono ripetutamente accusate di passività nella ricerca degli averi degli oligarchi russi che vivono nel nostro Paese. Rimproveri che in questo mese di luglio si sono fatti ancora più roboanti.
Ad alzare la voce da Washington è stata la cosiddetta «Commissione Helsinki», un comitato indipendente del governo statunitense composto da una ventina di parlamentari statunitensi e da alcuni funzionari della Casa Bianca. Questa commissione, che si occupa prevalentemente di diritti umani, una decina di giorni fa ha organizzato un’audizione per parlare proprio del nostro Paese e dell’operato delle banche elvetiche. E nel farlo non sono di certo stati utilizzati toni diplomatici, a cominciare dal titolo di questa riunione: I patrimoni alpini della Russia: il riciclaggio di denaro e il mancato rispetto delle sanzioni da parte della Svizzera. Come dire: il menù è servito ed è decisamente indigesto per il nostro Paese.
Le audizioni sono state introdotte dal presidente della «Commissione Helsinki», il senatore democratico Ben Cardin. A suo dire la Svizzera rimane un Paese amico, pur avendo «un lato oscuro» quando si tratta di denaro di origine sospetta. «Lo avevamo già visto durante la Seconda guerra mondiale – ha fatto notare Cardin – quando nelle banche svizzere venne depositato l’oro che il regime di Hitler aveva sottratto agli Ebrei. Lo abbiamo visto pure quando i dirigenti dell’Apartheid in Sudafrica hanno portato i loro soldi in Svizzera. E adesso lo vediamo anche per quanto riguarda gli oligarchi russi. È un modello che si ripete».
A prendere la parola davanti a questa commissione è stato chiamato anche Bill Browder, uno dei maggiori accusatori del nostro Paese. Nel suo intervento questo uomo d’affari e attivista anti-russo ha persino esortato Washington a inserire nella lista nera delle persone da sanzionare anche l’ex procuratore generale della Confederazione, Michael Lauber, e l’attuale numero uno della Ministero pubblico Stefan Blatter. Il dito accusatore è dunque puntato molto in alto e molto alta è anche la pressione su Berna, basti dire che quanto formulato dalla «Commissione Helsinki» va ad aggiungersi alle critiche espresse in questi ultimi mesi anche dall’ambasciatore statunitense a Berna, Scott Miller, e a una lettera che nella primavera scorsa il Consiglio federale aveva ricevuto dai Paesi del G7.
Una missiva in cui la Svizzera veniva invitata a partecipare ai lavori di una task force internazionale per intensificare la caccia agli averi degli oligarchi russi. Una sollecitazione a cui Berna ha risposto con un rifiuto. A detta del Consiglio federale il nostro Paese è allineato alla comunità internazionale ed è già in costante contatto con le task force che si occupano di rintracciare i patrimoni russi.
È su per giù quanto risponde anche la Segreteria di Stato per l’economia quando si trova confrontata con le accuse di passività nel contrastare la forza economica di Mosca. Per la Seco il nostro Paese non solo sta facendo abbastanza, ma fa anche più di tanti altri Stati democratici nell’indebolire il sistema economico russo. «Applichiamo in modo coerente le sanzioni e anche i principi internazionali nella lotta al riciclaggio di denaro sporco». Per la Seco anche la collaborazione con le banche elvetiche in questo ambito funziona a dovere.
Dopo la riunione del «Comitato di Helsinki» è intervenuto anche il Dipartimento federale degli affari esteri. A suo dire le accuse formulate da Washington non si basano su «alcun fatto concreto». Per rafforzare la sua difesa Berna cita spesso anche alcune cifre, in particolare quella che riguarda i beni russi effettivamente bloccati dalle nostre autorità. In tutto si tratta per il momento di sette miliardi e mezzo di franchi. Una somma di tutto rispetto, sottolinea la Seco. La Svizzera da sola ha infatti congelato un terzo di quanto hanno finora fatto i 27 Paesi dell’Unione europea, che per il momento hanno sequestrato patrimoni per un totale di 21 miliardi e mezzo di euro.
Ma al di là di queste risposte, che giungono soprattutto dall’amministrazione federale, manca al momento una presa di posizione forte e chiara a livello politico. Il Consiglio federale in relazione a queste accuse è di fatto silente e sembra voler prender tempo. Un atteggiamento che ha sollevato diverse critiche, anche perché Berna si potrebbe presto veder recapitare una seconda lettera da parte del G7, con un’esortazione ben più robusta a partecipare a una task force internazionale.
La pressione sul nostro Paese è forte anche per quanto riguarda il settore del commercio di materie prime, in cui la Svizzera è una delle principali piattaforme a livello mondiale. Le lezioni del passato ci dicono che occorrerebbe reagire, prima che l’onda d’urto si faccia troppo imponente. Come non ricordare qui la questione del segreto bancario, con il nostro Paese che alla fine ha dovuto cedere alle pressioni, soprattutto a stelle strisce, dopo aver per lungo tempo applicato la strategia del prender tempo?
Su questo fronte si è aperto un fossato anche interno. La sinistra ritiene che le maglie svizzere nel contrasto alle frodi finanziarie potrebbero essere ben più strette, occorrerebbe una legislazione in materia ben più severa. E Berna dovrebbe creare una propria task force sui patrimoni russi, opzione però già bocciata dal Parlamento. La destra economica invece reputa che il nostro Paese non ha bisogno di lezioni sulla trasparenza finanziaria da parte degli USA, in cui ci sono Stati che sono ancora oggi dei paradisi fiscali.
Quanto sta capitando ha in ogni caso tutti i contorni di una guerra per indebolire la piazza finanziaria elvetica e il ruolo del nostro Paese nel commercio di materie prime. E in gioco c’è anche l’immagine della Svizzera a livello internazionale. A Berna al momento non si vede però una strategia di difesa chiara e capace anche di giocare d’anticipo, visto che una cosa è certa: le pressioni da oltreoceano non faranno che aumentare.