Dalle minacce alla mano tesa

Usa-Iran – La disponibilità di Donald Trump a incontrarsi con gli ayatollah non è il segnale di una svolta statunitense nei confronti della Repubblica Islamica giudicata irrimediabilmente avversa
/ 06.08.2018
di Lucio Caracciolo

Gli Stati Uniti hanno deciso di stringere la morsa attorno all’Iran. Prima uscendo dall’accordo sul nucleare, considerato inutile anzi dannoso rispetto alla dichiarata intenzione di bloccare lo sviluppo del presunto programma atomico militare di Teheran. Il fatto che gli altri contraenti – Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania, oltre ovviamente all’Iran – abbiano deciso di mantenerlo in vigore, non toglie che senza la partecipazione di Washington sia solo un pezzo di carta straccia. Contemporaneamente, l’amministrazione Trump ha scelto di irrobustire le già pesanti sanzioni anti-Iran. In due tappe: la prima in vigore dal 4 agosto, la seconda, che equivale a un embargo semitotale, con blocco soprattutto delle esportazioni petrolifere, vitali per il bilancio iraniano, dal 5 novembre. 

Nelle dichiarazioni pubbliche e nei messaggi via Twitter di Trump e associati, non si pretende il regime change. Ma le condizioni poste per la ripresa del negoziato, che potrebbe in teoria sfociare in un vero e proprio trattato – quindi vincolato alla problematica ratifica del Senato – equivalgono alla capitolazione della Repubblica Islamica. Dalla rinuncia piena e verificabile al programma nucleare alla fine del supporto ai clienti regionali – Libano di Hezbollah, Siria di al-Asad, Iraq, fazione huthi in Yemen eccetera – e alle reti «terroristiche» in tutto il mondo, fino all’accettazione dell’esistenza di Israele, i 12 punti illustrati dal segretario di Stato Mike Pompeo non lasciano adito a dubbi. 

Certo, secondo il suo stile Trump ha curato di comunicare al nemico di essere pronto a incontrare senza condizioni il leader della Repubblica Islamica. Salvo essere subito smentito da Pompeo, che vincolava qualsiasi discussione con i vertici della Repubblica Islamica al più duro catalogo di concessioni preliminari. 

Ma qual è il vero obiettivo di Trump, e in che misura Congresso, Pentagono, Dipartimento di Stato e Cia concordano su questa sfida? Probabile che, come sempre alla vigilia del voto di mezzo termine che a novembre rinnoverà buona parte del parlamento americano, il presidente si sia rivolto soprattutto al suo elettorato, per confermarsi nella fama di uomo forte e deciso, pronto a contrastare qualsiasi nemico in nome dell’America First. Inoltre, il gusto di mandare a monte il maggior successo diplomatico del suo predecessore alla Casa Bianca deve aver contribuito alla sua decisione.

Sullo sfondo, resta che amministrazione e apparati hanno consolidato nel tempo l’idea di una Repubblica Islamica irrimediabilmente avversa. Mullah e pasdaran sono considerati proiettati verso l’egemonia regionale sul Golfo. A minacciare così l’Arabia Saudita e i suoi satelliti, a cominciare dagli Emirati Arabi Uniti, e l’intero schieramento dei regimi arabi e sunniti più o meno vicini agli Usa. Non solo, Washington prende molto sul serio le minacce a Israele. E se mai l’establishment a stelle e strisce non desse opportuno rilievo all’odiosa retorica antisionista di Teheran, il premier israeliano Netanyahu, da sempre fautore dell’attacco definitivo alla Repubblica Islamica, provvede a rammentarlo ai suoi interlocutori americani.

Inoltre, due fattori storico-psicologici hanno il loro peso nella visione americana. Il primo è l’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran tra 1979 e 1981, durata 444 giorni, con contorno di fallita operazione di salvataggio orchestrata dal presidente Carter. Il secondo è la ferrea convinzione, negli apparati e nella classe politica, che i persiani siano falsi e inaffidabili. Dunque non c’è troppo da sperare in negoziati con loro.

Sauditi e israeliani hanno immediatamente solidarizzato con Trump. Per gli arabi sunniti Teheran è la centrale di un diabolico piano inteso a stravolgere gli equilibri nel Golfo a favore della componente persiano-sciita e dei suoi amici veri o presunti nella regione. Oltre che un competitore di taglia notevole sul mercato petrolifero globale. Nelle parole dell’allora sovrano saudita Abdullah II, pronunciate davanti all’ambasciatore statunitense Crocker nel 2008: «Dovete tagliare la testa del serpente» (persiano). 

Per Gerusalemme, da quando lo scià è stato costretto alla fuga (1979) e al suo posto si è installata una teodemocrazia dalla retorica violentemente anti-occidentale e anti-sionista – temperata nei fatti – il regime di Teheran è l’unica vera minaccia esistenziale nella regione. Oltre che un possibile competitore in ambito nucleare, essendo oggi lo Stato ebraico la sola potenza atomica mediorientale (non dichiarata).

Certo, muovere guerra all’Iran sarebbe operazione estremamente rischiosa. Dopo le esperienze tuttora inconcluse in Afghanistan e in Iraq, una nuova grandiosa spedizione militare in Medio Oriente sarebbe presto impopolare, a meno di non concludersi con una rapida quanto improbabile vittoria. Gli iraniani dispongono di capacità militari non convenzionali, specie nel cyberwarfare e nella guerriglia, oltre che di un vasto quanto quasi inespugnabile territorio. La minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, da cui passa il 20% dei traffici energetici e commerciali del mondo, è forse irrealistica. In ogni caso, il trauma di una guerra aperta Usa-Iran sarebbe colossale e globale. Anche per questo è possibile che retoriche e controretoriche non deflagrino in una guerra dalla quale sarebbe arduo per chiunque, Stati Uniti inclusi, uscire trionfatore. afpyc