Dagli highlanders a Sturgeon

La Brexit ha fatto riemergere l’irresistibile pulsione anti-inglese che caratterizza il popolo scozzese. Quell’astio collegato anche alla volontà di Londra di imporre l’anglicanesimo all’intera Gran Bretagna
/ 05.07.2021
di Alfredo Venturi

Il Regno unito ha lasciato l’Europa? E noi lasceremo il Regno unito! Per gli indipendentisti scozzesi la questione è molto semplice, intenzionati come sono a usare la Brexit per sbarazzarsi della sovranità britannica. Una prima volta il tentativo fallì, il 18 settembre 2014 prevalse il no al clamoroso disimpegno scozzese. Ma ora, dopo che la Gran Bretagna nel suo insieme è uscita dall’Unione europea, ci vogliono riprovare e si mostrano assai sicuri del fatto loro. Siamo maggioranza, finalmente ci libereremo di Londra! Il miraggio è tenace, legato a una sofferta nostalgia, la evocano i versi dell’antica ballata che canta una battaglia perduta seguita dalla strage dei vinti. Sono versi carichi di malinconia: «Sulla brughiera soffia un vento freddo, fiammeggiano i fuochi che scaldano il nemico. È questo il raccolto di Culloden: qui crescono il dolore, la paura, la morte». Il 16 aprile 1745 la battaglia di Culloden pose fine al sogno di una Scozia sovrana, oltre che alle ambizioni di Carlo Edoardo Stuart, il pretendente cattolico che voleva insediarsi sul trono inglese al posto di Guglielmo II di Hannover.

Sono passati poco meno di tre secoli dalla cruenta disfatta dei giacobiti e quel sogno viene ora trasferito dalla storia all’attualità dopo che la Gran Bretagna si è congedata dall’Unione europea. Il fatto è che quel 23 giugno del 2016, il giorno in cui il 52 per cento dell’elettorato britannico volta le spalle all’Europa, in Scozia prevale la scelta opposta del remain. È vero che più tardi viene respinta per referendum dal 55 per cento degli elettori la proposta di abbandonare il Regno unito e ricreare lo Stato sovrano, ma il 6 maggio 2021 il Partito nazionale scozzese della combattiva Nicola Sturgeon stravince le elezioni affermandosi come principale forza politica nel Parlamento scozzese. Ecco allora riaffacciarsi la prospettiva di un recupero spettacolare della sovranità, del distacco da Londra, del ritorno fra le braccia dell’Unione europea. Per molti, fra le brughiere, le alte terre e la splendida Edimburgo, è una pulsione irresistibile, non tanto filo-europea quanto anti-inglese. La storia lascia spesso tracce incancellabili.

Il secondo referendum richiesto da Sturgeon si deciderebbe con un margine contenuto al di sopra e al di sotto del cinquanta per cento ma segnerebbe il destino dei Paese: si vota pro o contro la secessione. L’esito potrebbe privare la union jack, il vessillo britannico, della croce bianco-blu di sant’Andrea, lasciandovi solo il rosso e il bianco delle altre due croci, l’inglese di San Giorgio e l’irlandese di San Patrizio. Sempre che anche i nord-irlandesi non se ne vadano, visto quanto costa la Brexit per via del confine con l’Irlanda rimasta nell’Unione. E sempre che non prevalga la tesi di Londra secondo cui non si cambierebbe nulla perché la bandiera dalle tre croci ha segnato la storia sventolando su tutti i trionfi britannici, dalla conquista dell’impero alla sconfitta di Napoleone alle due guerre mondiali. Del resto agli indipendentisti il destino della union jack non interessa più di tanto, a loro basta liberarsene inalberando il blu e il bianco dei colori nazionali.

In fondo perché mai la Scozia dovrebbe prendere ordini dagli inglesi? Non è forse il Paese che a differenza del resto della Britannia seppe resistere ai romani, tanto che dopo i vani tentativi di conquista fu separato dalle terre sottomesse con una poderosa linea fortificata? Il Vallo di Adriano era presidiato da reparti scelti, legionari incaricati di difendere il limes dalle incursioni dei caledoni, i bellicosi antenati degli scozzesi. Agli ordini di Londra il fiero Paese degli highlanders, gli uomini delle alte terre le cui furibonde cariche seminavano scompiglio e morte nelle file nemiche? Anche a Culloden quegli impetuosi guerrieri si avventarono urlando contro gli ordinati reparti del duca di Cumberland, ma il loro slancio s’impantanò nel terreno acquitrinoso, mentre i moschetti degli inglesi sparavano nel mucchio. Una giornata tragica, quella dell’ultima battaglia combattuta sul suolo britannico. Ben diversa dal combattimento di poco più di mezzo secolo prima a Killiecrankie, dove agli highlanders bastò una decina di minuti per travolgere le forze del generale MacKay. Fu quello il loro ultimo successo, a Culloden solo «il dolore, la paura, la morte».

Dopo la sconfitta, la strage. Lord Cumberland, che cavalcava agitando la spada rossa di sangue, non ordinò forse di massacrare feriti e prigionieri? Non si guadagnò forse l’osceno titolo di butcher? Proprio così, macellaio, per lui i giacobiti non erano altro che ribelli e traditori. Quel che accadde dopo Culloden assomiglia molto a ciò che un giorno si chiamerà genocidio. Stragi nei villaggi, strutture di potere decapitate. Proibito parlare gaelico, proibito indossare il kilt, distrutta la cultura dei clan e del tartan. Vietati i culti diversi dall’anglicano. Addio alla cornamusa, ora quel suono lamentoso si sente soltanto nei reggimenti scozzesi inquadrati negli eserciti del re d’Inghilterra. Perché la Scozia non fu mai compatta, la frammentazione del potere è un suo tratto distintivo, come nella tradizione che voleva ogni clan individualmente sovrano. Persino a Culloden c’erano reparti scozzesi fra le truppe lealiste. È la stessa situazione che si registra oggi nella pacifica battaglia del voto: indipendentisti da una parte, lealisti dall’altra, la maggioranza che oscilla attorno alla barra del cinquanta per cento. Perché la Scozia non è abitata soltanto da scozzesi, non tutti sono sensibili al retaggio storico come i fautori dello Stato sovrano.

Ora il successo di Nicola Sturgeon segnala uno spostamento dell’equilibrio verso coloro che aspirano alla sovranità e al rientro nell’Unione europea. Di qui la prospettiva del secondo referendum per riproporre al mondo una Scozia indipendente. Come l’antico Regno che dal Medioevo attraversa i secoli fino all’inizio del Seicento, quando l’accesso del sovrano scozzese Giacomo VI Stuart al trono d’Inghilterra come Giacomo I porta all’unione personale dei tre Regni. Invano insorge la popolazione a Edimburgo e nel resto del Paese anticipando le rivolte giacobite come quella finita nel sangue di Culloden, ormai il meccanismo della successione ha offerto un supporto giuridico alle mire inglesi sulla parte settentrionale dell’isola. Un secolo più tardi i tre Stati si dissolvono nel Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda, poi ristretto nell’attuale Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.

La Brexit ha fatto riemergere dalle brume del tempo la secolare rivalità anglo-scozzese, legata anche al dissidio religioso scaturito dalla pretesa di imporre la chiesa anglicana all’intera Gran Bretagna. Sullo sfondo la parentesi cattolica impersonata dagli Stuart a cominciare da Maria Stuarda, regina di Scozia fin da neonata e secondo il partito legittimista vera sovrana inglese, che Elisabetta I, usurpatrice secondo questo punto di vista, manderà al patibolo. È anche in nome della sventurata regina che si protrae nei secoli fino al disastro di Culloden la grande ossessione giacobita: collocare uno Stuart, cattolico e scozzese, sul trono d’Inghilterra.