Da Taiwan messaggio democratico

Presidenziali - Pechino e Hong Kong guardano da prospettive opposte la rielezione di Tsai Ing-wen
/ 20.01.2020
di Giulia Pompili

L’immagine delle ultime elezioni presidenziali di Taiwan è quella pubblicata su Twitter da Tsai Ing-wen, un minuto dopo che i risultati del voto la confermavano alla guida dell’isola per un secondo mandato. Si vede lei di spalle, al centro della foto, che tiene per mano la sua squadra di governo e si inchina al pubblico: una folla festante, una partecipazione di massa com’è da tradizione nei paesi democratici asiatici. Al centro della piazza, tra le bandierine colorate della campagna elettorale, si vedono soltanto due cartelli neri. Entrambi dicono: Hong Kong libera.

Taiwan e Hong Kong hanno una storia diversissima ma mai come oggi complementare. Parte della vittoria schiacciante di Tsai alle elezioni dell’11 gennaio – 2,9 milioni di voti, il più alto tasso di affluenza sin dagli anni Settanta, che ha raggiunto quasi il 75 per cento – viene da Hong Kong. E dall’esempio dei ragazzi che da mesi ormai protestano in cerca di un sistema che garantisca loro l’autonomia promessa da Pechino. Fino a qualche mese fa il Partito progressista democratico di Taiwan, guidato dalla Tsai, sembrava in caduta libera. La presidente era accusata di non aver fatto molto per la crescita, nell’ultimo quadriennio, di essere stata poco incisiva sul piano delle riforme economiche. Il suo principale avversario, il candidato del partito Kuomintang Han Kuo-yu, aveva raccolto enormi consensi grazie a una campagna elettorale definita populista da larga parte dei media.

Sindaco di Kaohsiung, la seconda città taiwanese, e prima ancora parlamentare piuttosto sconosciuto al grande pubblico, nel luglio del 2019 Han Kuo-yu ha vinto le primarie del Kuomintang a sorpresa. Come abbiamo visto fare a molti leader definiti populisti, ci è riuscito anche grazie a slogan semplici, sull’economia e sull’immigrazione, e un rinnovato attaccamento ai cosiddetti «valori tradizionali». Han è diventato subito popolare soprattutto tra le generazioni più anziane, promettendo perfino di eliminare una delle più progressiste riforme portate avanti dalla presidente Tsai, che l’anno scorso ha fatto di Taiwan il primo paese asiatico a legalizzare i matrimoni gay. Poi però è successo qualcosa. Il Kuomintang, che tradizionalmente promuove una specie di quieto vivere nei rapporti con Pechino, non ha preso una posizione sulle proteste di Hong Kong. Tsai, invece, ne ha fatto il punto principale della battaglia politica.

Domenica 12 gennaio, il giorno dopo la vittoria di Tsai Ing-wen alle presidenziali taiwanesi, tutti i giornali di Hong Kong aprivano con la stessa notizia. Per la Cina, Hong Kong dovrebbe essere un modello per Taiwan, ma per i ragazzi delle manifestazioni di questi mesi è Taiwan il vero modello: molti di loro sono scappati dagli arresti, dalle rappresaglie della polizia, e il primo luogo che vogliono raggiungere dal porto profumato è Taipei. La vittoria di Tsai ha dato loro un’altra speranza. E infatti anche nelle manifestazioni che ogni fine settimana proseguono al centrodi Hong Kong si iniziano a riconoscere cartelli e messaggi per i cugini taiwanesi, «parliamo la stessa lingua», ci dice un ragazzo sui vent’anni che si fa chiamare Danny, «e non è il mandarino», cioè il cinese della Cina continentale.

Un anno fa il presidente cinese Xi Jinping aveva detto che «Taiwan sarà riunita alla Cina». Il modello proposto da Pechino a Taipei per un suo «ritorno alla madrepatria», con le buone o con le cattive maniere, è da sempre quello di «un paese, due sistemi». Cioè lo stesso utilizzato a Hong Kong, sin dall’accordo nel 1997 tra Gran Bretagna e Cina per il trasferimento di sovranità sull’ex colonia britannica. Il Partito progressista democratico di Tsai, pur riconoscendo che l’economia taiwanese è estremamente legata a quella di Pechino, ha sempre negato una eventualità simile, facendo forza proprio sull’unicità di una democrazia come quella taiwanese. È un affronto intollerabile per Pechino, che considera Taiwan una provincia ribelle, e non un paese indipendente. Come punirla? Se applicare ritorsioni al business è impossibile, perché sia la Cina sia Taiwan avrebbero conseguenze negative, Pechino ha trovato un metodo di grande impatto mediatico ma forse non altrettanto efficace. La crescita della potenza economica cinese è andata di pari passo con un graduale isolamento diplomatico di Taiwan. Sono pochissimi, a oggi, i paesi che riconoscono la Repubblica di Cina come uno Stato indipendente. Anchel’Unione Europea e l’America aderiscono alla cosiddetta «One China Policy», anche se, di fatto, mantengono ottime relazioni bilaterali con Taiwan.

Tsai è stata la prima presidente a cui ha telefonato Donald Trump dalla Casa Bianca, creando un notevole imbarazzo diplomatico. Così, dopo le elezioni dello scorso fine settimana, pressoché tutti i leader politici americani si sono congratulati con la presidente, soprattutto per la forza che il suo messaggio politico manda al mondo. Sui libri di scienze politiche probabilmente si studierà per molto tempo questo incredibile sorpasso di Tsai Ing-wen – l’unica donna al potere in Asia che non abbia avuto un padre, un marito politico al suo fianco, insomma una self made woman – sull’uomo forte e popolare, che semplifica ogni questione politica. La vittoria della democrazia, anche quando è messa a rischio da questioni geopolitiche più forti, più imprevedibili. Su «Foreign Policy» Lev Nachman scrive che «un mese prima delle elezioni l’approvazione di Tsai era al 51 per cento e quella di Han 29 per cento», posizioni invertite rispetto al periodo precedente. «La mobilitazione è stata l’arma segreta di Tsai contro la minaccia populista. È stata una vittoria nei numeri, non necessariamente una vittoria ideologica».

La presidente e il Partito progressista democratico sono riusciti a mobilitare due milioni di persone in più rispetto alle elezioni precedenti – quasi tutti giovani. Sono andati a cercarli, quelli indecisi, quelli che non sapevano chi votare, e li hanno portati alle urne mostrandogli le fotografie e i video dei loro cugini, a Hong Kong, che sfidano i blocchi della polizia perché a votare vorrebbero andarci, e non possono. O meglio: il 24 novembre scorso, durante le uniche elezioni possibili nella regione autonoma di Hong Kong, ovvero quelle per i consigli distrettuali, i cittadini hanno scelto a maggioranza i candidati pro democrazia – un segnale importante, ma quasi inutile dal momento che a decidere il governo locale di Hong Kong è ancora Pechino. «Prima delle elezioni, ho detto che Taiwan si sarebbe unita per difendere la libertà e la democrazia», ha scritto su Twitter la Tsai il giorno dopo la sua rielezione. «Negli ultimi sei mesi Hong Kong ha dimostrato quanto sia prezioso questo impegno. Spero che i cittadini di Hong Kong si innamorino del messaggio che le nostre elezioni hanno inviato al mondo».

Secondo la stampa della Cina continentale quella della presidente Tsai Ing-wen è stata una «strumentalizzazione» delle proteste di Hong Kong a fini elettorali. Il «Wall Street Journal» , due giorni prima delle elezioni, ha pubblicato un articolo firmato dall’ «Editorial board» dal titolo Le elezioni taiwanesi di Hong Kong , in cui spiega che una vittoria dei progressisti sarebbe stata una bella grana per Xi Jinping e le mire egemoniche di Pechino nell’area. E infatti, finora, la risposta cinese alle elezioni taiwanesi è vaga, piena di propaganda e poca azione. Intanto, però, il messaggio democratico di Taiwan è stato lanciato.