Cuba, un mix di paura e speranza

Il regime in crisi reagisce attaccando i manifestanti che chiedono cibo, medicine e anche libertà. Era dal 1994 che gli abitanti dell’isola caraibica non scendevano in piazza per mostrare il loro dissenso
/ 19.07.2021
di Angela Nocioni

Destacamentos de respuesta rapida. Questo è l’asso nella manica del regime cubano (il bastone più che l’asso) contro le proteste scoppiate a sorpresa l’11 luglio nel municipio popolare di San Antonio de los Baños, subito fuori dall’Avana, ed estesesi da allora a catena qua e là nell’isola. Si protesta per penurie varie, di cibo e medicine, ma si grida: «libertà» e «basta dittatura!». Un inedito a Cuba. Gli agenti dei Destacamentos de respuesta rapida garantiscono botte da orbi date con perizia. Si tratta di professionisti che sanno picchiare senza lasciare segni, volendo, o esibire un metodo di repressione violenta che serva da deterrente a ulteriori manifestazioni anti-regime. A dipendenza degli ordini.

Fidel Castro li usò in abbondanza durante la «crisi del Maleconazo» nel 1994, l’unica grande protesta popolare precedente a quella di oggi (inferiore all’attuale per diffusione sul territorio e per capacità di propagarsi via social), gestita dal «líder máximo» con grande capacità politica in un abile ed efficacissimo braccio di ferro con gli Stati uniti e sfociata poi nell’esodo dei 30 mila cubani scappati per mare verso la Florida. La famosa «crisi dei balseros». Allora il coinvolgimento all’Avana degli agenti dei Destacamentos non fu nascosto, fu anzi esibito. Stavolta invece i picchiatori professionisti ufficialmente non sarebbero stati chiamati. Ma chi era per strada in vari punti dell’isola conferma al telefono di averli visti in azione. Inconfondibili.

Anche ad Arroyo de Naranjo, sobborgo dell’Avana dove lunedì 12 il regime ha fatto il suo primo morto tra i manifestanti (Diubis Laurencio Tejeda di 36 anni), raccontano di aver visto quelli dei Destacamentos in azione. La versione ufficiale sui fatti di Arroyo de Naranjo l’ha data così l’agenzia governativa Acn: «Un gruppo ha cercato di dirigersi verso una stazione di polizia con l’intenzione di danneggiare l’edificio e di aggredire gli effettivi». Non una parola per spiegare come e perché ci sia stata una vittima. Si sa solo che è accaduto lunedì 12 e che in quell’occasione molti manifestanti sono stati feriti e arrestati.

Il regime è in difficoltà, sta rispondendo con ferocia silenziosa, ma con cautela. Per questa ragione tace sull’utilizzo dei Destacamentos. La protesta a singhiozzo non se l’aspettava e teme lo scoppio di nuovi focolai. Ha reso subito inaccessibile il collegamento a internet tramite cellulare, ben consapevole che «il nemico» da anni non è più la Cia ma il 3G. Ha talmente chiara la dimensione del problema che non ha nascosto la riunione d’emergenza del Buró politico del Partito comunista cubano, con partecipazione del vecchio Raul Castro, che non comanda direttamente né fa più parte del Buró, ma non essendo morto rimane il vero leader. Gli affari economici e le forze armate sono e restano nelle sue mani, nonostante alla presidenza sieda Miguel Díaz-Canel, il quale si limita a frasi di rito: «la rivoluzione cubana non porge l’altra guancia» o «i contro-rivoluzionari sognano una guerra tra cubani, non daremo loro il piacere».

La prospettiva è cupa. Esattamente come altri Governi della regione alle prese con proteste popolari di massa, il regime conta sulla sua possibilità di disincentivare nuove manifestazioni facendo pagare carissima l’alzata di testa a tutti i manifestanti detenuti, a quelli fermati, a quelli identificati e anche a quelli che in strada non sono scesi ma sono considerati capaci di farlo dai Comitati di difesa della rivoluzione (Cdr), gli odiosi gruppi di spie civili che a Cuba controllano ogni mossa dei vicini. Ce n’è almeno uno in ogni strada, in città e in campagna. Impossibile sfuggirli.

L’efficacia dei Cdr è basata, in pieno stile sovietico, nel far sentire ciascuno vigilato anche quando non lo è. Successi perversi dell’imbattibile scuola di Mosca. La stessa che ha insegnato ai cubani il doppio passo nella repressione. Da una parte si nega l’utilizzo dei reparti d’élite, dall’altra si crea il caso clamoroso: si arresta un famoso artista mostrando di poter serenamente ignorare la mobilitazione di tutti i suoi influenti amici artisti all’estero, si va a prendere la youtuber Dina Stars mentre viene intervistata in diretta da una televisione spagnola così che sia chiara la determinazione della polizia a fare piazza pulita.

La tensione a Cuba sta crescendo. La speranza anche. Dall’Avana raccontano che ovunque, a casa e fuori, non si parla d’altro. E che lo si fa con toni spaventati, ma entusiastici. E poiché a Cuba tutti sanno che anche i muri hanno le orecchie, se nei bar e in strada l’entusiasmo per l’esplosione sociale non è nascosto significa che il regime fa bene a temere. Vuol dire che vacilla il suo essenziale pilastro: la solidità dell’ipocrisia inculcata, la scuola socialista del mentire e dissimulare per timore, per convenienza, per rassegnazione, del non alzare mai la testa. Se il regime sente vacillare il suo architrave, se teme di non poter più contare sulla paura di ciascuno di dire ciò che pensa, può temere di potere perdere tutto. E risponderà con lentezza, nel tempo, molto duramente.