Crisi d’identità

Germania – Il risultato del recente voto in Baviera riflette la realtà di un Paese che quasi tre decenni dopo la riunificazione vede significative differenze fra l’Est e l’Ovest. E soffre di fronte alla recente ondata migratoria
/ 22.10.2018
di Lucio Caracciolo

Le recenti elezioni in Baviera confermano che la Germania è entrata in una delle sue ricorrenti fasi di crisi identitaria – chi siamo? che cosa vogliamo? – tipiche della storia di quel grande Paese. Tali cicli normalmente vengono assorbiti dal sistema. Solo raramente sfuggono di mano, slittando verso esiti drammatici se non catastrofici. Da rischi di tali dimensioni siamo fortunatamente molto lontani. Tuttavia è opportuno tenere un occhio attento al corpo e alle molte anime dello Stato centrale non solo geograficamente in Europa.

A uno sguardo analitico, emergono tre fenomeni sistemici, di cui il voto bavarese – con la storica sconfitta della CSU, l’affermazione dei nazionalisti dell’AfD, il crollo della SPD e il successo dei Verdi – è interessante segnale.

In primo luogo, ad appena un anno dall’ennesima riconferma alla cancelleria, la leadership di Angela Merkel è in avanzata fase di decomposizione. Certo conta il fattore tempo: nessuno può resistere troppo a lungo al centro del potere senza logorarsi. Poi anche perché il centro cristiano-democratico schiacciandosi di fatto su posizioni socialdemocratiche ha tolto l’aria al suo principale partner di governo (SPD) mentre ha aperto uno spazio notevole alla sua destra, subito occupato dalla AfD (nel caso bavarese, anche dai Liberi Elettori, lista dai toni e dagli scopi affini a quelli dell’Alternativa per la Germania). Sicché per la prima volta nella storia della Germania postbellica dobbiamo attenderci per una fase prevedibilmente lunga uno spostamento verso la destra radicale dell’elettorato già centrista. A creare un nuovo polo politico e culturale.

In secondo luogo, l’avanzato tramonto della cancelliera non ha per ora uno sbocco politico visibile. Far fuori il capo del governo in Germania non è facile, grazie al meccanismo della sfiducia costruttiva per cui un cancelliere può essere sostituito solo quando un altro aspirante alla carica disponga di una maggioranza sufficiente al Bundestag. Oggi si potrebbe pensare, al massimo, al ritorno della SPD all’opposizione per riprofilarsi a sinistra, con i Verdi e i liberali della FDP ad offrire una sponda utile a un nuovo leader cristiano-democratico tutto da inventare (Merkel come ogni «monarca» in fine di regno ha cura di bruciare scientificamente possibili candidati alla sua poltrona).

In terzo luogo, la Germania non è più il nocchiero della barca europea. Certo, resta il Paese decisivo, ma oggi non è più in grado di garantire quella rotta – sia pure accidentata – col pilota automatico, che ha finora permesso all’Ue e soprattutto all’Eurozona di sopravvivere alle tempeste monetarie e non solo. I rapporti con la Francia sono assai freddi, la chimica fra Macron e Merkel modesta. La Polonia, l’Ungheria e altri paesi dell’ex impero sovietico, di fatto parte della catena del valore industriale tedesco e della sua sfera d’influenza geopolitica, vanno per fatti loro. E su questioni cruciali – migranti anzitutto – sono allineati con l’AfD piuttosto che con la CDU. L’Italia è in piena crisi e rischia di mettere in questione la struttura dell’Eurozona, non fosse che per le dimensioni del suo debito – e della sua economia, da Bologna in su strettamente connessa a quella tedesca.

Eppure l’economia germanica non pare in crisi, la qualità dei servizi, malgrado alcune infrastrutture decadenti, è più che accettabile. Ma le percezioni della gente non sono all’altezza dei dati oggettivi. Secondo l’ultima analisi dell’Istituto demoscopico Allensbach, la percentuale di chi denuncia la carenza di appartamenti a prezzi accessibili è al 51% (35% nel 2014), quella di chi vede aumentare il divario fra ricchi e poveri al 51% (42% quattro anni fa), mentre il 72% teme l’incremento della violenza e della criminalità (contro il 42% rispetto allo stesso termine di paragone).

Fatto è che la questione centrale non è economica, nemmeno principalmente politica, ma identitaria. Riflette la realtà di un Paese che quasi tre decenni dopo la riunificazione vede significative differenze, soprattutto cultural-politiche, fra l’ex Est e l’Ovest. E che soffre di fronte alla recente ondata migratoria, per cui oggi la Bundesrepublik è lo Stato probabilmente più multietnico dell’intera Europa. Ciò non vale solo per la difficoltà di integrare i nuovi arrivati dalla Siria o dal Medio Oriente, ma anche per ceppi da tempo insediati, come i turco-tedeschi. Le destre estreme, tra cui anche pattuglie neonaziste, soffiano su questo fuoco, alimentano la xenofobia. Come meravigliarsi se anche gli altri europei, pur così a lungo narcotizzati dal mito della Germania come Grande Svizzera, cominciano a preoccuparsi?