Crisi di legittimazione della politica

Dopo il successo di Trump, della Brexit e il trionfo del No al referendum italiano si assiste a una introversione del clima sociopolitico che si accompagna e accelera la crisi della globalizzazione
/ 12.12.2016
di Lucio Caracciolo

Il trionfo del «no» al referendum italiano sulla riforma costituzionale è l’ennesimo segnale della crisi della politica nelle liberaldemocrazie occidentali. Fino a pochi anni fa sembrava che l’orizzonte liberale e democratico fosse il destino del mondo. Oggi l’efficacia delle politica in Occidente è in discussione. E con essa la sua legittimazione. Non stupisce che a Berlino, e di conseguenza a Bruxelles, la reazione diffusa al voto in Italia sia stata quella di considerare fallito lo Stato italiano, riprecipitato nella spirale di instabilità cui Renzi sembrava averlo sottratto.

Al di là delle soluzioni formali – si avrà probabilmente a Roma un governo «di scopo» mirante alla riforma della legge elettorale, per poi andare al voto durante il 2017 – la Germania, Stato decisivo in ciò che resta della costellazione comunitaria, pare orientata a mettere sotto tutela lo Stivale, facendone una sorta di semiprotettorato, cui sottrarre definitivamente la sovranità fiscale. Obiettivo immediato il salvataggio delle banche italiane in sofferenza, il cui crollo avrebbe conseguenze sistemiche – in Italia, in Europa e nel mondo. Salvataggio via ricapitalizzazione delle banche da scambiare con una politica economica di «lacrime e sangue» vegliata da Berlino tramite la Commissione europea. Per ridurre finalmente il debito italiano.

Una manovra di questo tipo finirebbe probabilmente per far saltare l’Unione Europea. A meno di non togliere il diritto di voto agli italiani, il semiprotettorato europeo provocherebbe una rivolta diffusa delle classi medie, quelle che hanno subìto direttamente e pesantemente la ristrutturazione voluta e variamente attuata dai governi Monti, Letta e, in parte, Renzi. Significherebbe il probabile avvento al governo del Movimento 5 Stelle, tuttora sprovvisto di un chiaro progetto politico e di una classe dirigente capace di reggere a tanta responsabilità. 

Per leggere il senso del «no» italiano nel contesto del deficit di legittimazione della politica in Europa e in Occidente, conviene allargare lo sguardo al resto del mondo, così come ci appare dopo il referendum britannico sulla Brexit e soprattutto dopo il successo di Trump nelle elezioni presidenziali americane. 

La crisi di senso della politica accompagna infatti, e insieme accelera, quella della globalizzazione. La prudenza suggerisce di non affrettare verdetti epocali. Epperò la fase alta di questa globalizzazione sembra esaurita. Tesi confortata da diversi indicatori, che segnalano l’inversione di tendenza negli scambi globali. Spartiacque è il 2008, anno orribile della crisi scoppiata nella finanza privata americana, poi diffusa per via virale. A investire prima l’economia, quindi la società, la politica, l’idea stessa di comunità, ovvero della convivenza fra uguali e diversi. 

I più evidenti segnali di deglobalizzazione economica sono tre. Primo, la drastica diminuzione della mobilità del capitale: i flussi finanziari in relazione al prodotto interno lordo globale sono caduti dal 57% del 2007, vigilia della crisi, al 36% del 2015. Secondo, l’infiacchirsi dei traffici internazionali: dal 2008 il rapporto fra commercio e produzione è piatto, appena sotto al 60%. L’aumento dei volumi del traffico di servizi e merci sarà quest’anno inferiore alla crescita del pil globale (2% contro 2,4%). Terzo, la caduta degli investimenti diretti esteri, il cui ritmo di crescita è dimezzato rispetto al 3,3% toccato nel 2007. Se a questo sommiamo le politiche protezionistiche attivate da diversi paesi e l’aborto dei troppo ambiziosi progetti strategico-commerciali concepiti da Obama per Atlantico (Ttip) e Asia-Pacifico (Tpp) – misto di liberoscambismo e contenimento geopolitico di apparenti partner (Germania) ed espliciti rivali (Russia e Cina) – ne traiamo che le oleografie sui destini globali dell’economia dipingono il recente passato più che il futuro prossimo. 

Di qui il surriscaldamento e l’introversione del clima sociopolitico in America e in Europa. Ricchezza insultante dei supermiliardari e impoverimento dei ceti medio-bassi, che alcuni economisti e gran parte delle opinioni pubbliche occidentali attribuiscono alla faccia oscura della globalizzazione, alimentano il discredito dei poteri stabiliti, l’insofferenza verso gli immigrati e la diffidenza verso il mondo esterno. Meglio la dipendenza controllata dal proprio Stato nazionale che l’interdipendenza incontrollata dall’anonima dunque irresponsabile globalizzazione. 

Il nazionalismo rimontante dopo una parentesi di settant’anni non è figlio di ideologie trascorse. Nasce piuttosto dallo spaesamento eccitato dal globalismo, dalla frizione fra politicamente corretto e senso comune, dal bisogno di calore che l’individuo trova nell’appartenenza alla terra ancestrale, non negli algoritmi della finanza elettronica. Con metafora germanica: è nostalgia di focolare (Heimat) prima che di patria (Vaterland). Dalla politica non ci si attende l’interconnessione con i mercati altrui, si pretende la difesa degli interessi nazionali, che ciascuno identifica con i propri. 

In questo clima, il progetto di ridurre l’Italia come la Grecia, sottomettendola alla camicia di forza delle istituzioni europee – peraltro più impopolari che mai – è destinato a fallire. Peggio: a precipitare quella disintegrazione dell’Unione Europea che vorrebbe evitare.