A trent’anni dal Summit della Terra di Rio de Janeiro, che per la prima volta chiamò i Governi al capezzale del pianeta malato, a venticinque dal Protocollo di Kyoto che li impegnò a ridurre le emissioni, infine sette anni dopo l’Accordo di Parigi che di quell’impegno fissò la misura e i tempi, la diplomazia del controllo del clima ci prova una volta ancora. Ma le prospettive della Cop27, la ventisettesima conferenza delle parti che si sta celebrando a Sharm el-Sheikh sono tutt’altro che rosee. Al problema di fondo che ha fin qui ostacolato l’adozione di misure stringenti, cioè il contrasto fra i Paesi sviluppati, grandi inquinatori del passato, e quelli ancora in fase di crescita che chiedono di non essere penalizzati, si aggiunge infatti un altro fattore frenante, l’emergenza energetica innescata dalla guerra ucraina e dai suoi contraccolpi sulle forniture di gas.
I delegati che affollano la località egiziana si affannano per colmare distanze incolmabili, mentre i capi di Stato e di Governo si avvicendano alla tribuna pronunciando discorsi carichi di buone intenzioni. Come già lo scorso anno alla Cop26 di Glasgow, spiccano le assenze di Vladimir Putin e Xi Jinping, alle prese rispettivamente con l’attualità bellica e con le tensioni attorno alla questione di Taiwan. Spicca anche l’assenza, ben diversamente motivata, della militante svedese Greta Thunberg: non vado a Sharm el-Sheikh, ha spiegato, perché anche questa conferenza non è altro che greenwashing. È questo un neologismo di gran moda fra gli ambientalisti, tratteggia un approccio ecologico di maniera, fatto di promesse che non saranno mai mantenute.
Si parla dell’opportunità di bloccare i finanziamenti internazionali ai progetti di estrazione di combustibili fossili, ma alcuni fra i Paesi che si sono impegnati in questo senso, per esempio la Germania, guardano alle loro miniere di carbone come prospettiva praticabile per compensare l’interruzione delle forniture russe di gas. Mentre l’Italia chiede che i finanziamenti vengano non bloccati ma semplicemente limitati, e intanto pensa di integrare le importazioni di gas riavviando quelle stesse estrazioni offshore nell’Adriatico che erano state fermate perché provocavano fenomeni di subsidenza. Cioè abbassamenti del suolo provocati dai vuoti aperti in profondità dalle estrazioni.
A Sharm el-Sheikh si continua a parlare di decarbonizzazione ma il raggiungimento dell’obiettivo pattuito a Parigi nel 2015, limitare a due gradi, possibilmente uno e mezzo, l’aumento della temperatura media della Terra rispetto ai valori che precedettero la rivoluzione industriale, si allontana pericolosamente nel tempo. C’è il rischio reale di superare il punto di non ritorno oltre il quale il disastro diverrebbe apocalittico. I delegati riuniti in Egitto cercano di correre ai ripari rinviando alla Cop28 in programma a Dubai nel 2023 l’accordo sui finanziamenti da reindirizzare verso le energie sostenibili che era stato abbozzato l’anno scorso a Glasgow. Ai tempi lunghi del dibattito internazionale corrisponde l’incalzare dei fenomeni avversi, dal clima impazzito all’innalzamento delle acque marine.
Un’ombra nera sovrasta questo nuovo appuntamento della diplomazia climatica. Si tratta del fatto che, nonostante l’evidenza meteorologica, l’allarme non è più percepito dalle opinioni pubbliche con la stessa intensità del recente passato. Si fa lentamente strada l’idea che il clima ha sempre conosciuto mutamenti anche radicali, ben da prima che la rivoluzione industriale spedisse nell’atmosfera i suoi fumi venefici. La quota di responsabilità umana legata allo sviluppo industriale sarebbe dunque marginale: il disastro del clima non sarebbe colpa delle attività produttive se non in minima parte. È una tesi cara all’opinione conservatrice, è su questa base ideologica che un’eventuale ritorno di Donald Trump alla presidenza dopo le elezioni del 2024 porterebbe gli Stati Uniti a insidiare il primato della Cina come Paese più inquinante, ricollocandosi al primo posto.
Il presidente Joe Biden è arrivato alla Cop27 all’indomani delle elezioni di metà mandato, il cui esito per lui molto migliore del previsto lo ha visibilmente rinfrancato. La sua presenza a Sharm el-Sheikh vuol essere un segnale rivolto agli elettori, in vista del voto presidenziale del 2024 che potrebbe riportare Trump alla Casa Bianca. Il presidente cerca di convincere gli americani che va impedito, fra le altre cose, il ritorno della superpotenza fra i «cattivi» che nonostante le sempre più frequenti devastazioni cicloniche, lo scioglimento dei ghiacciai e il rischio di sommersione che minaccia gli stati insulari del Pacifico, negano l’emergenza climatica. Bisognerà vedere fino a che punto gli elettori americani, molto sensibili ai temi dell’economia e dunque orientati a non limitare la libertà d’azione del mondo produttivo, sapranno spostare l’attenzione sul tema ecologico, controverso più che mai negli Stati Uniti.
In margine alla Cop27 Biden ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi intrattenendolo sui diritti umani. Il Paese che ospita la conferenza deve fare i conti con l’immagine che di sé proietta nel mondo. Si contesta non solo la carente disposizione ad arginare il deterioramento climatico, ma anche la sistematica violazione di quei diritti. Si prevedono manifestazioni di protesta, la sede dell’evento è blindata dalla polizia e dall’esercito. Il Cairo risponde alle accuse facendosi portavoce delle necessità africane. Contribuendo con non più del quattro per cento alla produzione di gas a effetto serra, il Continente nero ne soffre ben più di altri le conseguenze, a cominciare da quei disastrosi fenomeni meteorologici che assieme alle disperate condizioni economiche e sociali spingono milioni di persone a tentare la fuga verso l’Europa. La Cop27, le conferenze che l’hanno preceduta e quelle che seguiranno si fissano proprio l’obiettivo di aiutare i Paesi più poveri, e più vulnerabili, ad affrontare i problemi della transizione ecologica. Purtroppo la recessione globale limita le possibilità di intervento, mentre in questo mondo di folli aumentano a dismisura le spese militari. Basti pensare che i miliardi inghiottiti dalla guerra ucraina avrebbero potuto, se non proprio guarire il pianeta, almeno migliorare sensibilmente il suo stato di salute.