Donald Trump dutante la sua prima conferenza stampa da presidente eletto alla Trump Tower di New York

A Chicago, davanti a oltre 20 mila persone, Barack Obama nel suo discorso di commiato da presidente ritrova il carisma e il vigore di otto anni prima


Cosa riserva la rivoluzione Trump?

Inauguration Day – L’eredità Obama è ciò che The Donald trova alla Casa Bianca questo 20 gennaio, giorno del suo insediamento. Sull’economia come su altri terreni la transizione appare fin d’ora accidentata
/ 16.01.2017
di Federico Rampini

In una fase in cui la globalizzazione è sotto accusa da più parti, la rivoluzione di Trump in economia può essere la ricetta per un nuovo modello economico? E quanto diversa sarà rispetto al bilancio di Barack Obama? Partiamo da quest’ultimo punto, perché l’eredità Obama è ciò che Trump trova alla Casa Bianca questo 20 gennaio, Inauguration Day.

75 mesi consecutivi di crescita dell’occupazione, un record. 16 milioni di nuovi posti di lavoro creati. La disoccupazione scesa a livelli vicini al pieno impiego, 4,7% della forza lavoro, metà della media europea. E tutto questo è avvenuto dopo un punto di partenza terrificante: quel gennaio 2009 in cui Obama s’insediò alla Casa Bianca, vide 600’000 licenziamenti in un solo mese. L’America che lui ereditava da George W. Bush 8 anni fa era franata nella più grave crisi economica dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. La storia di questi otto anni non è certo merito di un presidente, l’economia non obbedisce agli ordini dei governi. Ma Obama fece la sua parte, a cominciare dai contestati salvataggi delle banche e dell’automobile che costarono 700 miliardi (poi recuperati); e la maxi-manovra di rilancio Recovery Act che gettò altri 800 miliardi negli ingranaggi dell’economia, investimenti pubblici ed incentivi alle energie rinnovabili. Infine il robusto e decisivo aiuto della Federal Reserve: una politica monetaria innovativa inchiodò i tassi a zero e soprattutto iniettò 4000 miliardi di liquidità comprando titoli.

Eppure il capolavoro della ripresa americana – che gli europei hanno ragione di invidiare – è stato seguito dall’elezione di Trump. Sull’economia come sugli altri terreni la transizione è accidentata, polemica, stizzosa. Trump ha passato la campagna elettorale a liquidare la ripresa obamiana: «Dati truccati». A seconda dei comizi, il repubblicano ha urlato che la vera disoccupazione è al 20%, o al 30%, perfino al 40%. Numeri in libertà, che lui è pronto a rimangiarsi dal 20 gennaio quando comincerà ad attribuirsi i meriti di ogni miglioramento. Ma nella sua comunicazione «post-fattuale», Trump coglie una verità. C’è una fascia di lavoratori che devono accontentarsi di impieghi precari, part-time e sottopagati, mentre avrebbero bisogno di fare il tempo pieno (in questo senso la «vera» disoccupazione è al 9%).

C’è un esercito di americani che sono usciti dalla forza lavoro, hanno smesso di cercare un posto. C’è anche un pezzo di classe operaia declassata, che ha visto sparire le sue fabbriche in Messico o in Cina, si è ricollocata nei nuovi mestieri del terziario povero: camerieri di fast-food, cassiere degli ipermercati, fattorini di Amazon. Con buste paga dimezzate. I salari reali hanno cominciato a salire solo di recente, i primi anni della ripresa obamiana hanno riprodotto il vecchio modello: tutti i benefici sono andati ad arricchire ancor più l’1%. Da queste ingiustizie nascono i populismi di destra e di sinistra, Tea Party e Occupy Wall Street. In quanto ai giovani, ha torto Obama quando dice di lasciargli un’America migliore. Mai come oggi l’università è diventata un lusso, con rette che superano i 50’000 dollari annui per le superfacoltà di élite. 

Trump sembra un improbabile Robin Hood: palazzinaro, elusore fiscale, e difensore della classe operaia? Lui vuole mantenere almeno alcune promesse: presidenza anti-global, populista e protezionista. Dazi punitivi contro chi produce all’estero, sgravi fiscali a chi reimporta capitali, e una generale riduzione delle tasse sulle imprese. Deregulation per i capitalisti e le banche. Via libera all’energia petrolifera. Investimenti a gogò nell’edilizia e opere pubbliche. Ce n’è un po’ per tutti, questo giustifica la luna di miele tra l’establishment industrial-finanziario, e il presidente-eletto. Gli esperti hanno sbagliato ancora: come dopo Brexit, anche dopo l’elezione di Trump non c’è stata l’Apocalisse, l’unico fracasso sono stati i tappi dello champagne che volavano a Wall Street. Il superdollaro sancisce l’attesa di un ritorno d’inflazione, e risucchia capitali dal resto del mondo, dalla Cina come dall’Italia.

Da una ripresa solida, costante e moderata (Obama) potremmo passare ad un boom surriscaldato dal deficit pubblico. Dietro l’angolo, naturalmente, ci sarà prima o poi una recessione. Ma nessuno azzecca mai le previsioni sul quando e sul quanto. Per ora Trump può salire su una locomotiva avviata. E incominciare esperimenti che avranno ripercussioni sul mondo intero. 

Il più importante di questi esperimenti sarà probabilmente il neo-protezionismo. La posta in gioco è una torta da 5000 miliardi di dollari. È il tesoro delle multinazionali americane, il valore totale accumulato negli anni dei loro investimenti diretti nel resto del mondo. È qui che Trump intende «prelevare» le risorse per il suo piano: «Make America Great Again». Ha già convinto Ford e United Technologies a cancellare due progetti di investimento all’estero, ambedue per costruire fabbriche in Messico. Dietrofront, le due multinazionali hanno ceduto alle pressioni del presidente e quegli investimenti li faranno negli Stati Uniti. Il bilancio in termini di posti lavoro salvati è modesto: circa duemila. Ma è il segnale di quel che Trump intende fare per mantenere le sue promesse. Se quei due successi iniziali dovessero essere replicati su vasta scala, quali saranno le conseguenze? Quanta occupazione si può salvare, o ri-nazionalizzare, invertendo la tendenza dopo un quarto di secolo di delocalizzazioni? Se la globalizzazione fa marcia indietro, chi saranno i vincitori e i perdenti? Su quel totale cumulato di 5000 miliardi di investimenti esteri delle multinazionali Usa la quota di gran lunga più grande è in Europa: 2950 miliardi. Segue l’America latina con 850 miliardi, al terzo posto arriva l’Asia con 780 miliardi.

Trump ha già indicato i principali strumenti con cui può influire sulle scelte di localizzazione delle grandi imprese Usa. Il primo è lo strumento dissuasivo-punitivo più classico: i dazi doganali. Il presidente-eletto minaccia di infliggere una sovratassa del 35% sui prodotti che le multinazionali Usa reimportano nel mercato domestico dopo averli fabbricati all’estero. Il secondo strumento è un incentivo fiscale. La tassa Usa sugli utili societari è tra le più alte, attualmente l’aliquota è del 35%. Lui promette di ridurla in modo drastico, al 15%. Il terzo strumento, nella categoria degli incentivi, è la deregulation, anch’essa fra le promesse di Trump per ridurre i costi di produzione sul territorio nazionale. Infine lui può usare il volano delle commesse pubbliche, per esempio la spesa militare: un argomento che ha usato nei confronti di United Technologies e Boeing.

Il revival del protezionismo è meno nuovo di quanto sembri. Ronald Reagan, in un America pre-Nafta e pre-Wto, colpì le auto giapponesi con i dazi, costringendo Toyota a creare fabbriche sul territorio degli Stati Uniti. Barack Obama lo usò nella maxi-manovra anti-recessiva. Il suo Recovery Act, la legge con cui varò 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 per rilanciare la crescita, conteneva una clausola «Buy American»: favoriva i produttori americani come destinatari delle commesse pubbliche. Quella clausola fu impugnata, con risultati alterni, dai principali partner legati agli Stati Uniti da trattati di libero scambio, tra cui l’Unione europea e il Canada. Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di praticare politiche industriali aggressive, a livello federale e ancor più a livello dei singoli Stati. I governatori degli Stati offrono spesso pacchetti di sgravi fiscali per attirare investimenti, o trattenere le imprese sul loro territorio. È una politica industriale che fa pagare il conto al contribuente. La sinistra, con Bernie Sanders, lo ha etichettato come Corporate Welfare: assistenzialismo per le imprese.

Se la svolta protezionista di Trump viene applicata su vasta scala, i partner commerciali non staranno fermi. Il Messico può fare ricorso in base alle regole del Nafta se ritiene di essere colpito da dazi contrari agli accordi. Un paese ben più grosso come la Cina, mercato ambito dalle multinazionali Usa, può decidere di rispondere colpo su colpo, varando dei contro-dazi. Interi mercati potrebbero chiudersi alle imprese americane. Prima che si avveri questo scenario da guerra commerciale, le lobby del capitalismo americano manovreranno al Congresso per condizionare Trump: dentro il partito repubblicano una solida corrente liberista è contraria alle barriere. 

Trump fin qui ha usato un effetto-annuncio, per incidere sui calcoli di convenienze delle grandi imprese. Ma questi calcoli variano molto, la tipologia degli investimenti esteri non è uniforme. Ad una estremità, ci sono investimenti esteri che delocalizzano la produzione solo per sfruttare il costo inferiore della manodopera in un paese emergente, e da lì re-importano gran parte della produzione: è il caso delle «maquiladoras» costruite in Messico per approvvigionare il mercato Usa. È qui che le azioni di Trump possono cambiare il quadro delle convenienze. All’estremo opposto ci sono investimenti fatti per rifornire il mercato locale: è così in Europa, in parte anche in Cina. In questo caso chiudere le fabbriche per riportarle in America può significare indebolirsi su mercati esteri strategici. Infine ci sono multinazionali come Apple la cui catena produttiva è globale: in un iPhone sono incorporati componenti fatti in Cina, Giappone, Taiwan, Germania. Portare tutte le produzioni a casa può essere difficile, quasi impossibile. E alcuni fenomeni di reindustrializzazione americana sono in parte una beffa: si costruiscono fabbriche con poca manodopera umana, tanti robot e intelligenza artificiale.