Donald Trump vola nei sondaggi. Matteo Salvini pure. I media americani sono a maggioranza ostili al loro presidente; anche il ministro degli Interni italiano incassa una robusta dose quotidiana di critiche. C’è qualcosa che Salvini ha imparato da Trump? Da osservatore americano delle vicende italiane, credo che le analogie siano numerose. All’origine probabilmente il successo di Trump fu la conseguenza di un’onda lunga dei populismi che avevano avuto in Italia un laboratorio primordiale fin dagli anni Novanta.
Adesso il rapporto di filiazione, imitiazione, emulazione, chiude il cerchio: i populismi europei guardano all’America come un modello e un motore trainante. Le sinistre sono in crisi di fronte a questi fenomeni, tutte fanno fatica a reagire e a risollevarsi dopo le disfatte elettorali: in Italia le ultime elezioni locali hanno confermato la caduta del Pd; negli Stati Uniti il prossimo test arriva a novembre, e i democratici farebbero bene a non sottovalutare le risorse di Trump. (Altrove, i socialisti francesi sono «missing in action», la Spd tedesca è il fantasma del partito che fu di Willy Brandt e Helmut Schmidt).
Tra i parallelismi America-Italia ne segnalo alcuni, che riguardano sia le strategie parallele di Trump e Salvini, sia le trappole in cui continua a cadere la sinistra. I populisti hanno il dono della provocazione, eccitano l’allarme dei media liberal: e così facendo ne monopolizzano l’attenzione. Sono sempre loro a dettare l’agenda, a decidere i titoli dei tg e dei giornali. La sinistra li denuncia, condanna quello che fanno; ma continua a rincorrere i temi che impongono loro.
I sovranisti rivalutano il nazionalismo in tutte le sue forme, dal protezionismo commerciale alla difesa dei confini contro i flussi migratori. La sinistra, pur di distinguersi, non esita a fare il tifo per dei leader stranieri. Negli Stati Uniti c’è chi, pur di dare addosso a Trump, oggi esalta il ruolo di Xi Jinping come nuovo difensore del globalismo. Pessima idea: nel merito è un errore perché il presidente cinese difende la globalizzazione solo in quanto la Cina ne trae vantaggio in modo abnorme, spesso grazie a regole asimmetriche e squilibrate. In generale non si conquistano voti presentandosi come «il partito dello straniero». Accade in Italia che il mondo progressista simpatizzi con Emmanuel Macron quando attacca Salvini. Credo che sia anche in questo caso un errore, anche se coerente con la tradizione esterofila delle élite italiane: ma conferma appunto il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Inoltre è un’illusione scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell’Italia si servirà finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi.
Qualcosa di simile accade sull’immigrazione. È il terreno sul quale Trump sembrava incappato in un infortunio grave, la vicenda dei «bambini in gabbia». Eppure il presidente sfiora il 90% dei consensi tra gli elettori repubblicani. Non è un risultato da poco. Per ritrovare un repubblicano così popolare tra i suoi bisogna risalire a George W. Bush nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001, che creò una forte coesione tra il leader e la sua base. Il sondaggio su Trump è stato fatto subito prima della «crisi dei bambini al confine», l’emergenza umanitaria sulle separazioni genitori-figli tra gli immigrati. È probabile però che anche quella abbia effetti diametralmente opposti nelle «due Americhe».
Tra i democratici c’è indignazione per il trattamento dei bambini e l’ostilità verso Trump ne trae nuovo alimento. A destra la narrazione di questa crisi nei notiziari della tv Fox News è molto diversa. Viene sottolineato che sono gli immigrati clandestini ad aver violato le leggi americane esponendo i propri figli ad ogni rischio. È stato anche notato che certi metodi duri coi minori erano già usati sotto l’Amministrazione Obama, nell’indifferenza dei media. Comunque per la base repubblicana lo slogan della tolleranza zero è la conferma che Trump capisce le loro paure, e vuole mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
Qualcosa di simile è già accaduto con il protezionismo, o la Corea del Nord. I dazi sull’acciaio europeo o sulle tecnologie cinesi sollevano un coro di critiche non solo all’estero ma anche sulla stampa progressista, dal «New York Times» al «Washington Post» non passa giorno senza qualche analisi allarmata sugli effetti-boomerang del protezionismo, e la previsione che finirà per danneggiare la stessa economia americana. A queste reazioni negative si uniscono quelle del mondo confindustriale, favorevole al libero scambio. Però chi applaude i dazi è proprio la base operaia che fu decisiva per l’elezione di Trump alla presidenza. Qui tra l’altro le mosse del presidente fanno breccia tra gli operai che votano democratico. Sulla Corea del Nord i media liberal hanno ridicolizzato il summit con Kim; quelli di destra si chiedono se avrebbero reagito allo stesso modo di fronte a un incontro tra Obama e il dittatore.
È presto per valutare le ricadute sull’elezione legislativa di mid-term che si terrà a novembre. Gli uni e gli altri stanno giocando sull’elemento cruciale che è l’affluenza al voto. Tradizionalmente nel voto di metà termine c’è un «effetto disillusione» verso il presidente in carica, che fa salire l’assenteismo tra gli elettori del suo partito. I democratici sperano che la propria base voti in massa, per conquistare una maggioranza al Congresso che blocchi questo presidente. Trump si adopera perché i repubblicani facciano quadrato in sua difesa.
Al suo attivo: il Muslim Ban è costituzionalmente valido. La Corte suprema si è pronunciata così nel merito del decreto presidenziale con cui Trump chiuse le frontiere a diversi paesi a maggioranza musulmana. Il verdetto è una netta vittoria per il presidente, su un terreno per lui cruciale, dove s’intersecano le politiche dell’immigrazione e la lotta al terrorismo. Il Muslim Ban fu il primo atto di questa presidenza, l’ordine esecutivo venne firmato da Trump pochi giorni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca. Immediatamente venne bloccato da una serie di ricorsi giudiziari, presentati da diversi Stati USA e accolti come validi da alcuni tribunali federali. I ricorsi contestavano l’incostituzionalità del divieto d’ingresso mirato su paesi a maggioranza musulmana, sostenendo che operava una discriminazione in base al credo religioso. Trump dovette riscrivere quel provvedimento in varie versioni.
Già in un precedente pronunciamento – di metodo – la Corte suprema aveva deciso di lasciare in vigore l’ultimo Muslim Ban. Ora il massimo tribunale americano ha deciso anche sulla sostanza. Con una maggioranza risicata di 5 contro 4 – e una spaccatura che rispetta rigorosamente l’equilibrio fra giudici di nomina repubblicana e democratica – la Corte ha stabilito che non c’è discriminazione religiosa, e che il presidente agisce nell’ambito dei suoi poteri. Quest’ultimo aspetto è essenziale, conforta Trump sul fatto che lui si è mosso correttamente: la Corte dice che è il presidente l’arbitro decisivo in materia di sicurezza nazionale, ha il diritto di chiudere le frontiere ad alcune categorie di stranieri se pensa che possano nuocere. Ecco un altro parallelismo possibile fra l’iperpopulista americano e il suo seguace italiano. Salvini continua a battersi contro l’immigrazione e continua a salire sui sondaggi, mentre la sinistra che vuole una politica di accoglienza continua a scendere. È probabile che anche in Italia i democratici siano diventati nella percezione di molti «il partito degli immigrati», e non abbiano capito che una vasta parte della popolazione considera un diritto quello di decidere chi può entrare e chi no.
«Obama, where are you?» La copertina del «New York magazine» lancia la domanda in tono angosciato, quasi straziante, ed è un sintomo dello stato d’animo della sinistra americana. Orfana dell’unico leader vivente... In effetti Obama è sparito, non appaiono più neanche i gossip sulle sue vacanze da giovane pensionato. Sta scrivendo il suo libro, dicono i collaboratori. Riapparirà al momento opportuno, settembre, per fare un po’ di campagna in appoggio a candidati democratici per le legislative. Peraltro è abbastanza normale che un ex presidente sparisca. Fece così George W. Bush durante la presidenza Obama, guardandosi bene dal criticare il successore anche se certo non ne condivideva le scelte. Ma al tempo stesso quella domanda del «New York magazine» tradisce il panico di un partito democratico che ancora non ha né leader nuovi né una strategia chiara, si avvia verso le elezioni di mid-term con delle discrete probabilità di rimonta, ma sa che il successo potrebbe rivelarsi fragile ed effimero.
Altro segnale di disorientamento dell’opposizione: la «caccia ai trumpiani nei luoghi pubblici». Episodi recenti hanno colpito la portavoce Sarah Sanders, la ministra della Homeland Security Nielsen, il consigliere Stephen Miller, tutti contestati rumorosamente o cacciati da ristoranti della capitale. Una deputata afroamericana della California, Maxine Waters, ha esortato i militanti a moltiplicare episodi di questo genere. Che invece altri considerano un segno d’impotenza, uno sfogo fine a se stesso, che non incide sui rapporti di forze reali nel Paese. La sinistra italiana rischia di apparire altrettanto agitata: ma i toni indignati non sostituiscono l’elaborazione di una strategia nuova, e la selezione di una nuova leva di dirigenti.