Forse stavolta ha ragione Vladimir Putin quando dice che «per il problema della Corea del Nord non esiste una soluzione». Qualche volta succede. Gli antichi greci nelle loro tragedie parlavano di «aporia»: situazione dalla quale non c’è via d’uscita.
L’ambasciatrice di Donald Trump all’Onu, Nikki Haley, al Consiglio di sicurezza lancia un avvertimento anche a Cina e Russia: qualsiasi paese che fa affari con la Corea del Nord sarà considerato come un complice e sostenitore della escalation nucleare, dopo il test di una bomba all’idrogeno. Prepara un nuovo giro di sanzioni, e su queste c’è già freddezza da parte cinese e russa. È ancora Putin a osservare con cinico realismo che «i leader nordocreani sono pronti anche a mangiare erba». Qui bisognerebbe correggerlo: i leader nordcoreani sono pronti a far mangiare erba ai loro sudditi, sfidando ogni embargo pur di proseguire nella corsa nucleare, ma il dittatore Kim continua ad avere gli appannaggi di un satrapo, dal caviale allo chef francese alle Mercedes.
Intanto sull’asse Washington-Seul si prepara un riarmo del Sud che potrebbe anche essere nucleare. Una telefonata tra Donald Trump e il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha sbloccato un aspetto cruciale: arriva il via libera degli Stati Uniti perché Seul possa costruirsi a sua volta dei missili balistici (non nucleari) di gittata e portata superiori. Finora il trattato bilaterale tra i due paesi alleati costringeva i sudcoreani a mantenere i propri missili entro 500 miglia di gittata e mezza tonnellata di portata massima. I due hanno anche deciso di accelerare insieme l’installazione dello scudo intercetta-missili Thaad (made in Usa). Da Seul vengono richiesti all’America più bombardieri e portaerei. Si affaccia l’ipotesi di reintrodurre nel dispositivo di difesa americano in Corea del Sud delle armi nucleari tattiche, una richiesta avanzata per adesso dall’opposizione ma non ancora fatta propria dal presidente Moon.
Il riarmo della Corea del Sud può essere un modo di rendere credibile l’impegno degli Stati Uniti a difendere i propri alleati in caso di attacco. Oppure può essere uno stadio nei preparativi per lanciare un intervento militare preventivo, anticipando Pyongyang, e prima che Kim abbia la capacità di colpire obiettivi americani come il territorio di Guam o l’Alaska.
Il National Security Council (Nsc), guidato dal generale McMaster, è la cabina di regìa della politica estera e militare, un pensatoio operativo al servizio del presidente, nel cuore della Casa Bianca. In mezzo al ponte festivo del Labor Day, il 3 settembre ha dovuto convocarsi d’urgenza, in versione ristretta, col presidente e vicepresidente, ma includendovi altri militari. All’inizio della riunione le due colombe erano il generale Mattis, che in passato non aveva escluso un negoziato con Kim, e il segretario di Stato Tillerson anche lui favorevole a esplorare la via diplomatica. Ma alla fine Tillerson è scomparso e Mattis cambia tono, a lui è toccato leggere un comunicato «tutto militare».
È un messaggio visivo lanciato al regime di Pyongyang: al termine del summit della Casa Bianca, a esporne le conclusioni è stato il capo delle forze armate affiancato da un altro militare in divisa (Joe Dunford, Joints Chief of Staff, una sorta di capo di stato maggiore di tutte le forze armate). Gli strumenti diplomatici o economici passano in secondo piano. Il trio dei generali (oltre a McMaster e Mattis c’è il capo dello staff presidenziale, Kelly) rappresenta al tempo stesso la potenza militare degli Stati Uniti ed anche l’elemento di stabilità in questo governo. Nell’emergenza Trump sceglie loro come voce dell’esecutivo.
Tre messaggi-chiave restano da ricordare, nel duro comunicato letto da Mattis al termine della riunione quel 3 settembre. «Non puntiamo alla distruzione totale della Corea del Nord». «La comunità internazionale è compatta nel condannare i test». Sono i riferimenti alla legalità: l’America ha la copertura «unanime del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite». Tuttavia Kim deve intuire che né lui né il suo regime sopravviveranno ad una risposta «soverchiante» se provoca la guerra. La linea rossa da non oltrepassare: «Minacce agli Stati Uniti, ai loro territori (Guam), alla Corea del Sud, al Giappone».
Un esterno all’Amministrazione dà voce ai colleghi dell’intelligence che non possono uscire allo scoperto. Il generale Michael Hayden, ex capo della National Security Agency, avverte che «le opzioni militari non sono impossibili ma sono tutte pessime». Esorta il presidente a non lanciarsi «in una gara di virilità con Kim, a chi la spara più grossa, guai se è l’amor proprio a guidare Trump». La destra repubblicana però, con il senatore Lindsay Graham, segue il presidente su questo: se guerra deve esserci, che i morti siano «laggiù, non quaggiù». Un attacco preventivo è legittimo se ferma Kim prima che diventi capace di colpire Guam o la West Coast.
L’idea di un embargo che colpisca qualsiasi paese terzo che fa affari con la Corea del Nord, ha una logica. Significa colpire pesantemente la Cina, con cui la Corea del Nord concentra il 90% dei suoi scambi esterni. L’arma commerciale sarebbe l’estremo tentativo di costringere Pechino a disciplinare il suo vassallo anziché tenerlo in vita con gli aiuti. Troverebbe larghi consensi nella base elettorale di Trump, non nelle multinazionali Usa. Il consigliere economico Cohn è contrario, su questo terreno il falco è Steven Mnuchin segretario al Tesoro.
C’è davvero un fronte unito tra gli alleati in prima linea che sono Usa, Giappone, Corea del Sud? I rapporti fra i tre sono tesi. Trump va d’accordo col premier giapponese Shinzo Abe, i suoi militari invece accusano Tokyo di avere un dispositivo di difesa inadeguato di fronte alla minaccia nordcoreana. Con la Corea del Sud è lo stesso Trump che non lesina attacchi. Attribuisce a Seul tentazioni di cedimento, e mette sotto riesame il trattato di libero scambio.
La diffidenza americana è ai massimi, di fronte all’incontro tra i presidenti cinese e russo che si è svolto al margine di un summit dei Brics: la sensazione è che emerga un asse tra Xi Jinping e Putin per ostacolare le pressioni americane. Ambedue quei paesi hanno avuto ruoli di alleati e protettori di Pyongyang, in parte li esercitano tuttora anche se condannano test nucleari e missilistici. Sempre però con un atteggiamento di equidistanza, che accentua i sospetti di Washington. Inaccettabile per gli Usa è la richiesta cinese che in cambio della rinuncia ai test nucleari di Kim, cessino anche tutte le manovre militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud. Con la Russia è ancora viva la tensione per la chiusura del consolato di San Francisco, probabile covo di spie.
Resta la possibilità dell’impasse o aporia, quella evocata da Putin. Qualcuno anche in America osa pensare l’impensabile: sediamoci al tavolo di negoziato e concediamo a Kim lo status di potenza nucleare, che significa anche una polizza di assicurazione vita a lungo termine per il suo regime. Sarebbe però un premio alla prepotenza, potrebbe istigare altri dittatori a fare lo stesso. E poi la strada del negoziato la tentò Bill Clinton nel 1994, fu preso in giro dai nordcoreani che regolarmente calpestavano gli impegni presi.