Contact tracing, un’arma spuntata

Pandemia - Il tracciamento e l’interruzione della catena dei contagi è uno degli strumenti principali della lotta alla pandemia. Molti cantoni sono però in difficoltà, perché colti di sorpresa dall’impennata dei casi
/ 09.11.2020
di Luca Beti

Non ci si può certo distrarre un attimo. Credevamo di avere la situazione sotto controllo. Invece ci è improvvisamente sfuggita di mano. La lotta contro il nuovo Coronavirus è stata spesso paragonata a una maratona. Oggi sarebbe forse più calzante parlare di un incontro di pugilato. Siamo sul ring: da una parte il COVID-19, dall’altra noi, la popolazione svizzera. Dopo aver vinto ai punti i primi round, abbiamo abbassato la guardia, dando la possibilità al virus di riprendere vigore e metterci alle corde. Un’evoluzione che ha preso alla sprovvista un po’ tutti, esperti, autorità cantonali e Consiglio federale. 

Alla fine di settembre, la Svizzera con poco più di 50 casi per 100mila abitanti registrava uno dei tassi più bassi in Europa. Poi, all’improvviso, il virus ha rialzato la testa. Dall’inizio di ottobre, il numero di persone risultate positive al test, ricoverate in ospedale o in un reparto di cure intense è raddoppiato ogni settimana. In appena trenta giorni, i casi sono esplosi e il 3 novembre erano quasi 8000 al giorno nella media settimanale. Una crescita esponenziale che nemmeno gli epidemiologi avevano previsto. Marcel Salathé, membro della Task Force, alla fine di settembre aveva affermato alla televisione svizzero tedesca che il numero di casi era stabile e la situazione gestibile, situazione che permetteva di guardare con grande ottimismo ai mesi freddi dell’anno. Purtroppo non è andata così.

Dopo aver lasciato gestire la crisi ai governi cantonali, il Consiglio federale è ritornato nuovamente in prima linea: la prima volta domenica 18 ottobre, durante una seduta straordinaria, la seconda volta, dieci giorni dopo. Da bordo ring ha invitato tutti ad alzare di nuovo la guardia e ha adottato varie misure, però meno restrittive rispetto ai Paesi confinanti, anche se da noi la situazione epidemiologica è più preoccupante. È la via elvetica, quella dettata anche dal federalismo. Alla spicciolata, i singoli Cantoni hanno deciso ulteriori giri di vite. Per esempio, tutta la Svizzera francese è in parziale confinamento: dopo Ginevra, Neuchâtel, Giura e Friburgo, anche i cantoni Vaud e Vallese hanno abbassato le serrande su bar, ristoranti, cinema, musei, centri sportivi. L’obiettivo è ridurre la mobilità della gente per frenare la diffusione del virus, evitando un sovraccarico del sistema sanitario. 

Il numero di pazienti nei reparti di cure intense è un ottimo indicatore per capire come un Paese supera la crisi. Se nella prima ondata, la Svizzera non è mai andata in affanno, ora è decisamente più in difficoltà. Stando al rapporto di fine ottobre della COVID-19 Task Force della Confederazione, se il numero di ospedalizzazioni continuerà di questo passo, il sistema sanitario rischia il collasso tra l’8 e il 18 novembre. Nel consueto incontro con la stampa, martedì scorso Virgine Masserey, responsabile della Sezione controllo delle infezioni dell’Ufficio federale della salute pubblica, ha confermato questa previsione, indicando che con il ritmo attuale tutti i letti nei reparti di cure intense rischiano di essere occupati in cinque giorni. Mercoledì, il ministro della sanità Alain Berset ha ricordato che il problema è rappresentato anche dalla carenza di personale negli ospedali poiché molti infermieri sono in quarantena. 

Per capire se le misure messe in campo sono sufficienti per invertire questa preoccupante tendenza devono trascorrere almeno 19 giorni dall’attuazione delle misure di contenimento, così spiega la Task Force. Gli ultimi provvedimenti adottati dal Consiglio federale e validi a livello nazionale risalgono al 29 ottobre. Si dovrà quindi aspettare il 17 novembre per sapere con certezza se le disposizioni hanno prodotto l’effetto sperato. Parlare prima di appiattimento della curva è quindi prematuro.

Per frenare la diffusione della pandemia, Confederazione e Cantoni puntano sul tracciamento. E proprio il contact tracing, uno dei capisaldi nella lotta contro il COVID-19, sta vacillando. Responsabili del tracciamento sono i Cantoni, presi però in contropiede dall’impennata dei casi positivi. Martedì scorso, Rudolf Hauri, presidente dell’associazione dei medici cantonali ha ricordato che il tracciamento «non funziona come dovrebbe».

Nelle scorse settimane molti Cantoni sono corsi ai ripari, reclutando e istruendo nuovo personale. Se in primavera si riteneva che il limite per garantire il tracciamento fosse di 100 contagi al giorno, oggi i cosiddetti tracer devono gestirne fino a 1000. Ma fino a quando può funzionare? Difficile dirlo. Di sicuro è uno degli strumenti più efficaci per evitare un secondo lockdown, una «soluzione dalle conseguenze economiche e sociali drammatiche», così l’epidemiologo Marcel Tanner.

L’arma più importante del contact tracing è la velocità. Entro 24 ore dal contagio, i responsabili cantonali dovrebbero contattare telefonicamente la persona in isolamento per ricostruire con lei la catena di trasmissione e mettere in quarantena amici, parenti o colleghi con cui ha avuto contatti ravvicinati. Questo è il quadro ideale della figura del «detective». La realtà è però ormai un’altra, almeno in alcuni Cantoni. Per esempio, il canton Appenzello Interno ha comunicato mercoledì scorso che non è più in grado di gestire la situazione, gettando in parte la spugna. A Zurigo, invece, si informa quasi solo in maniera digitale. Mezz’ora dopo aver ricevuto la comunicazione da parte del laboratorio, l’équipe di contact tracing invia un SMS alla persona risultata positiva al test, sollecitandola a mettersi in isolamento e a fornire i dati delle persone con cui ha avuto un contatto ravvicinato, ossia a meno di 1,5 metri e per più di 15 minuti, nei due giorni precedenti la comparsa dei sintomi della malattia. 

In seguito, i cosiddetti tracer inviano ai contatti stretti un messaggino o una e-mail con l’invito a mettersi in quarantena. Ciò che appare semplice sulla carta, è ben più complesso. Molto spesso la persona positiva al test non è in grado di indicare con precisione dov’è avvenuto il contagio, rendendo quindi impossibile l’individuazione del focolaio dell’infezione. E così il successo del contact tracing è limitato. Secondo il domenicale «SonntagsZeitung», la percentuale di persone positive già in quarantena oscilla tra il 10 e il 30 per cento, quando dovrebbe essere dell’80 per cento per essere efficace. 

L’Ufficio federale della salute pubblica si è affidato anche all’applicazione SwissCovid per interrompere la catena dei contagi. Al momento è stata scaricata da quasi 2,5 milioni di utenti, tra cui circa 1,9 milioni l’hanno attivata sullo smartphone. Sono circa il 22 per cento della popolazione. Al momento è difficile dire in che misura contribuisca a ridurre la diffusione del virus. Per l’UFSP sarebbe un successo, anche se l’obiettivo dichiarato era di avere tre milioni di app attive entro ottobre.

Il ministro della sanità Alain Berset ha ricordato che la Svizzera non ha a disposizione molte altre armi nella faretra per sconfiggere il nuovo Coronavirus. Per evitare di brancolare nel buio, come sembra sia il caso per molte équipe di contact tracing, e finire al tappeto, stesi dalla pandemia perché ci ha obbligati a un secondo lockdown, bisogna ridurre la mobilità e i contatti. Proprio quanto si augurano le autorità cantonali e federali, anche se restare sul ring costa fatica e ci fiacca, anche nel morale.