L’America che non lo ha votato l’8 novembre 2016 (cioè la maggioranza, con tre milioni di voti in più a favore di Hillary Clinton a livello nazionale) decreta il fallimento precoce di una presidenza inaudita, grottesca, distruttiva. Lui tira avanti come nulla fosse, allergico ai fatti, continua a vantare una «realtà alternativa». Si muove come fosse sempre in campagna elettorale, da comiziante e showman più che da statista. Forse perché la memoria della campagna lo rassicura: anche allora sondaggi e media lo davano per spacciato.
A salvarlo dalla sconfitta, l’8 novembre 2016 ci fu – la metafora della teoria del caos – un battito d’ala di farfalla, che amplificandosi a dismisura si trasformò in uragano su scala nazionale e mondiale. Il battito quasi impercettibile fu lo spostamento di poche centinaia di migliaia di elettori (su 136 milioni di votanti!). Per lo più operai bianchi, e le loro mogli. Alcuni di loro avevano votato Obama una o due volte ma nel 2016 hanno scelto l’outsider, il magnate che prometteva sfracelli contro l’establishment. Quel minuscolo spostamento ha precipitato l’America e il mondo in una storia senza precedenti. È a quegli operai che Trump dedicò il 20 gennaio 2017 il suo Inauguration Day a Washington: il discorso più «dark» di tutte le inaugurazioni presidenziali, una visione tragica dello stato del paese, la promessa di una rivincita improntata al nazionalismo.
È da loro che bisogna ripartire anche per tracciare la linea rossa che separa le due Americhe: sovranisti contro globalisti, ceti popolari contro élite, provincia profonda contro zone costiere cosmopolite. Gli operai a cui guardo per questa lezione di geografia del voto vivono nell’America di mezzo, quella che con un termine spregiativo viene definita come «fly-over country» perché le élite delle due coste preferiscono sorvolarla senza atterrare, osservarla distrattamente dall’altro senza mischiarsi nei suoi pensieri. Solo ogni quattro anni almeno noi giornalisti siamo finalmente obbligati a immergerci lì dentro, per le primarie presidenziali: e ne vediamo di tutti i colori.
Bisogna arrendersi all’evidenza, la geografia è diventata scienza politica. In alcune delle più antiche e solide liberaldemocrazie occidentali, «dove tu abiti» è diventato quasi un sinonimo di «come tu voti». È come se la popolazione di intere nazioni tendesse ad aggregarsi localmente seguendo logiche valoriali: in America o in Inghilterra o in Francia tendiamo a vivere vicino a quelli che la pensano come noi. Le mappe elettorali che hanno sancito le vittorie di Trump, Brexit, Macron, seguono una logica topografica, hanno agglomerazioni omogenee, confini precisi. La geografia s’intreccia con la condizione socio-economica, la professione e il reddito, il livello d’istruzione; si traduce in scelte di campo sull’immigrazione, la globalizzazione. Come quelle degli operai di Detroit. Sia chiaro, alcuni di loro col passare del tempo avranno pure cambiato parere su Trump, delusi dalle troppe promesse mancate; resta però una linea rossa che separa le élite progressiste dai ceti popolari, l’abisso valoriale che si è scavato tra loro.
All’impoverimento economico si è aggiunta una marginalizzazione che forse pesa perfino di più: quella culturale, valoriale, razziale, da parte della sinistra. Tutto ciò che appartiene al mondo dei «redneck» (termine offensivo con cui vengono definiti i lavoratori manuali, «colli rossi» perché abbronzati dal lavoro all’aperto) è diventato spregevole per un’élite globalista, multietnica, laicista. Lo stesso Obama fu colto in flagrante snobismo quando in una riunione a porte chiuse con dei ricchi finanziatori di San Francisco confidò questa sua descrizione degli operai del Midwest: «Diventano amari, si aggrappano alle loro armi, alla loro birra, alla loro Bibbia, all’ostilità verso gli immigrati o il libero commercio».
Un quadretto abbastanza realistico ma anche sprezzante. E un linguaggio così esplicito, così duro, non verrebbe usato dalla sinistra verso altre categorie di elettori. Lo stesso Obama avrebbe osato ironizzare su quelli che si aggrappano al loro Corano? Sicuramente no. Gli imam vanno rispettati anche se predicano regole più oscurantiste e retrograde degli evangelici di destra; no, criticare i mussulmani non è politically correct. Con la campagna elettorale di Hillary nel 2016 divenne ancora più marcato l’appello ai diritti di tutte le minoranze: gay lesbiche transgender, neri ispanici islamici, più ovviamente le donne che avrebbero finalmente polverizzato il metaforico soffitto di vetro, la barriera invisibile all’emancipazione femminile. Tutti avevano qualcosa da guadagnare se vinceva lei, tutti eccetto «loro».
È un fenomeno sul quale ha riflettuto lo storico Walter Russell Mead. «Molti americani bianchi – sostiene Mead – si trovano in una società che parla costantemente dell’importanza delle identità, che valorizza l’autenticità etnica, che offre aiuti economici e sostegni sociali sulla base dell’identità – per tutti fuorché per loro. Nel corso della campagna elettorale del 2016, tutto quel parlare di un’emergente maggioranza democratica basata sul declino secolare dei bianchi venne percepito come un progetto deliberato per trasformare la composizione dell’America. Hanno visto l’immigrazione come parte di un tentativo determinato e consapevole per marginalizzarli nel loro stesso paese». Secondo un’indagine del «Washington Post» e della Kaiser Foundation, tra coloro che appoggiano Trump il 46% mette al primo posto tra le preoccupazioni il fatto che i bianchi stanno «perdendo».
Un best-seller del 2017 s’intitola proprio Strangers In Their Own Land: estranei nel loro stesso paese. Con una forzatura linguistica si potrebbe anche tradurre con: stranieri nella propria patria. L’autrice, la sociologa Arlie Russell Hochschild, esplora la frustrazione, il risentimento, il rancore che covano nell’elettorato popolare. Nelle interviste della Hochschild ricorre un’immagine metaforica. La condizione in cui versa il Paese viene rappresentata come una fila sempre più lunga di masse che aspirano ad accedere all’American Dream. Traguardo ambito ma un tempo accessibile: un modesto benessere per tutti, la proprietà della casa, sicurezza economica, opportunità per i figli. E mentre la fila d’ingresso al Sogno Americano s’ingrossa, e avanza sempre più lentamente o sta quasi immobile, ci sono categorie appena arrivate che passano davanti a tutti, si avvalgono di aiuti per le minoranze, sorpassano nella fila i bianchi poveri a cui nessuno presta attenzione. Donne, neri, ispanici, profughi, ciascuno ha diritto a «quote», agevolazioni, «affirmative action» per promuoverne l’ascesa.
Per indovinare a priori il voto di un americano, dunque, la geografia è maestra. Se l’elettrice o l’elettore abitano a poca distanza dalla riva di un oceano, Atlantico o Pacifico, se quindi sono in prima linea sulla frontiera invisibile della globalizzazione, in quelle metropoli dove c’è più scambio culturale con il resto del mondo, e dove ci sono più immigrati, è molto probabile che voti a sinistra (democratico). Se invece abitano in un’America «più americana», più introversa, continentale, la fede repubblicana gli è congeniale. È paradossale che ci sia più paura degli immigrati in quegli Stati Usa dove ce ne sono relativamente meno, rispetto a New York e alla California. Ma questa è una contraddizione solo apparente, la fly-over country pensa: «Difendiamoci finché siamo in tempo, finché siamo ancora maggioranza in casa nostra». Ritroveremo la stessa situazione in tante elezioni europee: chi vota contro gli immigrati di solito vuole preservare proprio lo stile di vita che ha, alzare barriere «prima che sia troppo tardi».
La geografia del voto americano deve incrociare le mappe cartografiche con l’atlante della storia nazionale. Da una parte, semplificando, gli Stati Uniti sarebbero un «monocolore di sinistra» se vincessero le fasce costiere. Negli Stati di New York e della California, nel 2016 Hillary aveva vinto tra i due terzi e il 70% del voto; visti da lì oggi i repubblicani sembrano quasi una razza in via di estinzione. Le zone costiere sono sottili ma popolose; il sistema elettorale impregnato di federalismo però impedisce che gli iper-Stati con più concentrazione demografica dettino legge. Le maggioranze perfino eccessive che Hillary aveva conquistato sulle due coste non le sono bastate perché in troppi Stati di mezzo ha prevalso Trump, sia pure di stretta misura.
Però alla contrapposizione netta fra le coste e la massa terrestre centro-continentale si aggiunge un’altra dicotomia che è quella fra Nord e Sud. Qui non è solo la mappa terrestre a guidarci, la topografia va arricchita con il ricordo di un evento di oltre 150 anni fa, mai completamente superato: la guerra civile. Quegli Stati Usa che allora praticavano e legalizzavano lo schiavismo, che tentarono la secessione armata pur di conservarlo, oggi sono per lo più roccaforti repubblicane. I Confederate States of America furono formati all’inizio da un nucleo fondatore di sette (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas), la cui economia era prevalentemente agricola, basata su piantagioni con ampio uso di manodopera in stato di schiavitù, deportata dall’Africa. I sette si auto-proclamarono come una nazione indipendente, dopo l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti del repubblicano Abraham Lincoln nel novembre 1860.
Nel 1861 i Confederati scesero in guerra per uscire dall’Unione di cui facevano parte, quando fu chiaro che Lincoln intendeva mantenere la promessa su cui era stato eletto: abolire lo schiavismo, metterlo fuori legge. A guerra iniziata, si aggiunsero ai Confederati altri quattro Stati: Virginia, Arkansas, Tennessee, North Carolina. La linea rossa del voto per Trump include tutti gli Stati ex-schiavisti della Confederazione con l’unica eccezione della Virginia. Peraltro, quattro anni prima gli stessi Stati (meno la Florida) avevano votato per il repubblicano Mitt Romney contro Obama. Il Profondo Sud sconfitto nella guerra civile, è diventato un affidabile serbatoio di voti per la destra.