Chiunque «mastichi» alcuni principi fondamentali delle teorie economiche difficilmente potrà astenersi dal conoscere uno dei «cardini» di esse, cioè l’incontro fra domanda ed offerta da cui deriva fra l’altro la determinazione del prezzo. Alla base del funzionamento di tali forze vi sono, perlopiù, condizioni di competitività ‒ si prescinda da quella cosiddetta «perfetta», che certi libri di testo ancora introducono per semplicità ‒, che consentono appunto il libero movimento fra richiedenti ed offerenti. Da un punto di vista commerciale la concorrenza non è mai stata messa in discussione in tempi recenti, ma è stata anzi vista alla stregua di un vero e proprio volano dello sviluppo economico interregionale. Naturalmente, se è vero che certe dinamiche particolarmente frequenti quali quelle del dumping (cioè dell’esportazione di beni/servizi a prezzi notevolmente inferiori rispetto a quelli operati sul mercato interno) abbiano comportato una certa regolamentazione tramite misure in qualche modo definibili «protezionistiche», quali (minimi) dazi o quote, esse non intaccano in alcun modo il principio di «concorrenza». Quest’ultimo viene, infatti, difficilmente messo in discussione: basti pensare alle politiche antitrust predisposte dai principali Paesi per evitare l’accentramento di quote di mercato (con conseguenti rischi di riduzione dell’offerta ed innalzamento del livello dei prezzi) o anche solo alla tendenza generalizzata di permettere fluttuazioni dei propri tassi di cambio. Per la serie: concorrenza commerciale e valutaria, fatte!
Dal punto di vista fiscale-tributario, invece, la questione cambia non poco, se si considera che alcuni Paesi tendono a «mettere all’indice» altri caratterizzati da livelli di tassazione più favorevoli (e, quindi, potenzialmente da trattarsi con «attenzione» in caso di operazioni economiche reciproche). Senza addentrarsi nel «ginepraio» giuridico, è sufficiente soffermarsi sulla differente percezione di «concorrenza» a seconda che si sia in ambito commerciale ‒ dove è perlopiù caldeggiata ‒ o nella sfera tributaria ‒ dove è, invece, «tabuizzata» o persino talvolta esposta ad inversioni dell’onere della prova applicando un principio «capovolto» definibile con In dubio contra reum (cioè «Nel dubbio, contro l’imputato») anziché il principio garantista In dubio pro reo (cioè «Nel dubbio, in favore dell’imputato»).
Con tutte le eccezioni e distinzioni del caso, si può affermare che la concorrenza fiscale sia perlopiù temuta, poi osteggiata e ‒ laddove possibile ‒ prevenuta anche solo indirettamente tramite l’applicazione di standard regolamentativi comuni che ne riducano il margine d’attuazione. Inutile dire che da un punto di vista meramente economico tale disparità non sia giustificabile: se concorrenza vi deve essere (in quanto, appunto, le si ascrivono molti meriti dell’odierno post-capitalismo), che concorrenza sia in tutti i campi. Da un punto di vista fiscale, quindi, perché mai una tassazione più favorevole operata da un determinato Stato (o ente locale) dovrebbe essere vista in modo pregiudizievole, cioè di disturbo per quei competitor che applichino invece un’imposizione maggiore? E perché mai non dovrebbero essere questi ultimi ad essere visti quali «sfavorevoli» in termini tributari, quindi meno competitivi e performanti (così da spingerli verso un progressivo adeguamento delle proprie aliquote fiscali nel rispetto della sostenibilità di bilancio)? Ogni obiezione in termini di equità terrebbe poco, poiché la si dovrebbe in tal caso avanzare anche in campo commerciale: in quest’ultimo, infatti, ben poco rilevano quelle obiezioni che manifestano le grandi difficoltà di «stare al passo» da parte dei player minori rispetto ai colossi presenti sul mercato (caratterizzati, peraltro, da margini di profitti elevati, delocalizzazioni produttive ed influenza lobbyistica).
Beninteso: la concorrenza fiscale già esiste ‒ basti pensare a livello cantonale, europeo oltre che Oltreoceano ‒, ma è pur sempre percepita con maggiore «disturbo» rispetto ad altre forme competitive. Nel contempo, si è lontani dall’affermare con quanto qui scritto che i margini di ribasso fiscali possano e debbano essere applicati «senza quartiere», cioè da qualsiasi economia senza rispetto di servizi erogati, geografia economica e fabbisogno finanziario del momento. Il «nocciolo» è, infatti, un altro: se insieme a «concorrenza» si associa il concetto positivo di «stare meglio» (tutto da verificare, peraltro), tale principio deve essere proiettato evidentemente in ogni ambito della sfera economica. Se ciò fosse reputato giusto, sarebbe anche vero che ogni misura politica che si conceda al banale e solo utilizzo della leva fiscale senza abbracciare una visione più lungimirante, ridurrebbe potenzialmente l’appeal del Paese in termini di investimenti e consumi (interni/esterni). Fatto tipico per la materia economica (che è costituita da cicli ricorrenti, meccanismi di trasmissione delle politiche sul modello «causa-effetto» e pareggio necessario derivante dalla contabilità a partita doppia), è nel contempo inevitabile che quanto sopra crei le premesse per un «circolo vizioso» di aumenti di imposte (con conseguente perdita di benessere), il che, a sua volta, esercita una spinta sui nuclei familiari ad optare per prodotti della concorrenza estera (se più convenienti) e disincentiva le imprese dall’investire nel territorio (o persino dal rimanervi). Il tema «a cavallo» fra globalizzazione e localismo da un lato, competizione internazionale e tutela della realtà territoriale dall’altro è particolarmente complesso ed aperto ‒ fatto com’è da «pesi» e «contrappesi». Ciascun mix di politiche economiche (indipendentemente dalla sfera decisionale) dovrà saperlo ponderare opportunamente.